Malattia e attività extra-lavorativa: tra giurisprudenza e futura disciplina del CATUC

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Il Tribunale di Milano, con sentenza del 2 febbraio 2015, ha dichiarato l’illegittimità del licenziamento intimato dalla parte datoriale a una lavoratrice che, durante l’assenza per malattia, aveva partecipato a due maratone podistiche in orari corrispondenti alle fasce di reperibilità.

La sentenza è stata pubblicata con breve parafrasi nella “Edicola”del 02/03/2015.

La decisione merita di essere esaminata più approfonditamente alla luce sia degli orientamenti della giurisprudenza di legittimità, sia della normativa relativa al contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti (c.d. CATUC) - cfr. D.lgs. n. 23 del 04/03/2015.

L’art. 2110 del c.c. prevede l’obbligo del datore di lavoro di corrispondere al lavoratore malato o infortunato, nei limiti quantitativi e temporali previsti di solito dai contratti collettivi, un’integrazione salariale comunemente denominata indennità di malattia.

L’evento morboso viene ricondotto nell’ambito dell’impossibilità sopravvenuta e temporanea del lavoratore a rendere la propria prestazione, attesa l’incompatibilità di quest’ultima con il bene della salute costituzionalmente protetto.

La documentazione attestante la malattia viene trasmessa per via telematica dal medico curante all’INPS e al datore di lavoro vengono assegnate le credenziali di accesso alla banca dati telematica dell’Istituto per verificare l’attestato di malattia del dipendente, ai fini di potersi avvalere della visita fiscale ai sensi dell’art. 5 della L. n. 300/70.

Il lavoratore ha l’obbligo di consentire la visita di controllo da parte dei sanitari appartenenti alla strutture pubbliche.

Il problema si pone, semmai, per verificare vicende di natura “extra-sanitaria”, di difficile accertamento mediante la visita fiscale. Il riferimento più frequente riguarda lo svolgimento di attività extra-lavorative da parte del dipendente in pendenza dello stato di malattia.

Recentemente, la Suprema Corte (Cass. civ. Sez. lavoro, 05/08/2014, n. 17625) è tornata sul tema, ribadendo principi che paiono ormai consolidati nella giurisprudenza di legittimità (cfr. Cass. civ. Sez. lavoro, 06/06/2005, n. 11747; Cass. civ. Sez. lavoro, 07/06/1995, n. 6399; Cass. Civ. Sez. lavoro, 11/12/2001, n. 15621), ma al tempo stesso fornendo maggiori precisazioni.

Dal tenore letterale della motivazione si evince che:

1. lo stato di malattia del lavoratore ex art. 2110 c.c. non comporta di per sé l’impossibilità assoluta di svolgere qualsiasi attività, piuttosto è solo impeditivo delle normali prestazioni lavorative del dipendente;

2. la concomitanza e la compatibilità tra malattia ed attività extra-lavorativa non deve comunque comportare la violazione dei principi di correttezza e buona fede, che gravano sul lavoratore, atteso che quest’ultimo anche durante la degenza è tenuto ad adottare ogni opportuna cautela affinché cessi lo stato di malattia, con conseguente recupero dell’idoneità al lavoro;

3. resta, infine, ammessa, da parte del datore di lavoro, la presunzione che l’espletamento dell’attività extra-lavorativa del lavoratore possa costituire elemento indiziario per qualificare l’evento morboso come simulato o fraudolento; ma, in questo caso occorre che tale presunzione venga espressamente e chiaramente menzionata nella lettera di addebito disciplinare, onde consentire al lavoratore di comprendere bene la contestazione in funzione dell’esercizio del diritto di difesa;

4. l’onere della prova circa la compatibilità tra malattia denunciata e attività extra-lavorativa viene addossato al lavoratore.

Pertanto, anche laddove non passi la prospettazione relativa al carattere fraudolento della malattia, il datore di lavoro sarebbe legittimato a recedere dal rapporto di lavoro quando ritenga che la prestazione extra-lavorativa sia comunque idonea a violare i doveri contrattuali di correttezza e buona fede nell’adempimento dell’obbligazione, che implica anche attenzione del lavoratore all’osservanza dei doveri di cura e di non ritardata guarigione. Diventa allora decisivo analizzare, in sede peritale, se le terapie prescritte dal medico curante possano o meno conciliarsi con l’attività extra-lavorativa svolta dal dipendente.

Alla luce di tali premesse, può ritenersi che la decisione del Tribunale di Milano abbia applicato parte dei principi sopra esposti, atteso che la qualificazione di illegittimità del licenziamento muove dal rigetto dell’addebito con cui la parte datoriale accusava la lavoratrice di aver simulato lo stato di malattia.

Nella decisione, tuttavia, non è stata affrontata la questione se ai fini della legittimità del recesso la condotta della lavoratrice potesse o meno considerarsi rispettosa dei canoni di correttezza e buona fede.

Dalla lettura della motivazione non sembra che tale questione costituisca un’omessa decisione, giacché l’addebito de quo, a quanto è dato di comprendere, non sarebbe stato espressamente mosso alla lavoratrice dalla parte datoriale, la quale lo avrebbe circoscritto a due soli profili: asserita simulazione della malattia e, in subordine, assenza ingiustificata dal domicilio durante le fasce di reperibilità.

Sicché, il Tribunale di Milano avrebbe correttamente applicato la regola di corrispondenza chiesto-pronunciato sancita dall’art. 112 c.p.c. (“Il giudice deve pronunziare su tutta la domanda e non oltre i limiti di essa”), ritenendo infondata la prima censura punita con sanzione espulsiva e valutando invece fondato il secondo addebito sanzionato con pena conservativa.

Se la questione fosse venuta in essere sotto la sfera applicativa del CATUC, che per i licenziamenti disciplinari limita la reintegra alla sola ipotesi in cui “sia direttamente dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore”, l’applicazione della tutela della reintegra avrebbe potuto trovare più ostacoli.

Se per “fatto materiale” debba intendersi l’espletamento stricto sensu dell’attività extra-lavorativa da parte del lavoratore in pendenza della malattia, allora pare plausibile ritenere che tale fatto sia tutto meno che “insussistente”, con la conseguente applicazione della sola tutela indennitaria.

Diversamente, se si ritiene valido il presupposto enunciato dalla Suprema Corte, per cui lo stato di malattia è astrattamente compatibile con l’espletamento di altre attività della vita quotidiana, allora il “fatto materiale” può essere inteso in senso più ampio, di modo che, accertata tale conciliabilità, si potrà conseguentemente affermare il canone dell’“insussistenza” del fatto stesso e applicare la tutela reintegratoria.
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