L'attività del familiare nello studio del professionista e margini per l'adozione del provvedimento di sospensione

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Tizio, professionista abilitato, è titolare di un piccolo studio composto da tre stanze in cui prestano la propria attività due dipendenti con mansioni impiegatizie, di cui solo uno formalmente assunto. Occasionalmente Tizio si avvale per il disbrigo di alcune incombenze dell'aiuto della moglie Caia. Quest'ultima per l'attività svolta beneficia indirettamente dei guadagni del marito senza tuttavia risultare iscritta presso gli Enti previdenziali e assicurativi. In occasione di una verifica ispettiva il personale della DTL riscontra l'impiego irregolare della posizione di uno dei dipendenti e applica maxisanzione per lavoro nero. L'attività di Caia viene qualificata dagli ispettori come prestazione di lavoro irregolare perché svolta all'oscuro dalla Pubblica Amministrazione. Per tale rapporto gli ispettori non applicano maxisanzione in quanto non riconducono l'attività nell'alveo della subordinazione, ma in quello della collaborazione familiare ex art. 230 bis c.c. Infine, attesa l'entità di personale in nero occupato dal professionista, viene adottato provvedimento di sospensione dello studio professionale. È corretto l'operato degli ispettori?




L'attività non imprenditoriale del professionista

L'art. 2238, comma I, c.c. stabilisce che “se l'esercizio della professione costituisce elemento di un'attività organizzata in forma d'impresa, si applicano anche le disposizioni del Titolo II”, vale a dire le norme che disciplinano l'attività di impresa. Da tale disposizione si desume implicitamente che il professionista intellettuale o l'artista, sebbene svolgano un'attività professionalmente funzionale alla prestazione di servizi e che quindi si colloca nel mercato con la prospettiva del guadagno, non assumono la qualità di imprenditore ai sensi dell'art. 2082 c.c. Tale conseguenza viene sostanzialmente giustificata nella storica condizione di privilegio che l'ordinamento assegna a coloro che esercitano una professione intellettuale. Da sempre è stato asserito che il professionista intellettuale offre ai propri clienti non beni e servizi, ma una prestazione d'opera intellettuale nella quale assume preponderanza l'intuitu personae e quindi l'elemento personale dell'attività. Ciò che rileva in siffatta attività, pertanto, non è l'attività imprenditoriale, ma il nome, la capacità del professionista e la fiducia che egli ispira alla clientela.

Affinché il professionista intellettuale assuma la qualità di imprenditore, occorre che costui eserciti anche una distinta e assorbente attività commerciale, che si contraddistingue da quella professionale per il diverso ruolo che riveste il sostrato organizzativo e produttivo, proteso, invero, all'interscambio di beni e servizi. Tale attività, in altri termini, non deve essere circoscritta alle prestazioni d'opera intellettuale, ma deve involgere una prevalente azione di coordinamento e di controllo di fattori produttivi.

Considerato pertanto che il professionista intellettuale non è per regola imprenditore, ne segue pertanto che anche l'attività da esso espletata nello studio non è tecnicamente definibile “attività imprenditoriale”. In tal senso lo studio professionale non è un'“azienda” nel significato che l'art. 2555 c.c. designa come “[…] complesso dei beni organizzati dall'imprenditore per l'esercizio dell'impresa”.

Il professionista datore di lavoro

Tuttavia, se è vero che l'opera del professionista intellettuale non costituisce attività imprenditoriale è altrettanto vero che il professionista può assumere la natura di datore di lavoro. Recita infatti l'art. 2238 comma II c.c. che “in ogni caso se l'esercente una professione intellettuale impiega sostituti o ausiliari, si applicano le disposizioni delle Sezioni II, III e IV del Capo I del Titolo II”. Trattasi in altri termini della disciplina relativa ai rapporti di lavoro in genere. In tale caso pertanto, ove il professionista si avvalga per l'esecuzione della propria opera di personale dipendente è tenuto, al pari dell'imprenditore, ad assolvere ai relativi adempimenti. Semplificando: l'assunzione del lavoratore deve essere preventivamente comunicata al Servizio per l'Impiego e il corrispondente rapporto iscritto nel Libro Unico del Lavoro.

Il professionista e l'attività del familiare

Alla luce di tali considerazioni preliminari è lecito domandarsi altresì quale adempimento sia richiesto al professionista qualora si avvalga della collaborazione del proprio familiare.

Senza ripetere concetti ormai affrontati in precedenti articoli, si può semplicemente osservare che la costituzione di un'impresa è uno degli elementi occorrenti per il perfezionamento della fattispecie disciplinata dall'art. 230 bis c.c. Pertanto, considerato che il professionista non è imprenditore, la sua attività non può qualificarsi come impresa, con la conseguenza che costui non può avvalersi della disciplina di cui all'art. 230 bis c.c. e quindi non può neppure instaurare con il proprio familiare un rapporto di collaborazione familiare tipicamente inteso.

Sicché, a giudizio degli scriventi, l'attività del familiare rispetto al professionista intellettuale, può essere, a tutto voler concedere, astrattamente parificata a quella svolta da un ordinario lavoratore, con l'avvertenza tuttavia che in concreto gli oneri probatori richiesti sono molto severi e rigorosi circa la possibilità di dimostrare l'avvenuta instaurazione di un ordinario rapporto di lavoro. Viceversa, appare più plausibile ritenere che l'attività del familiare prestata presso lo studio del familiare costituisca non già prestazione lavorativa tout court, ma semmai adempimento ai doveri familiari.

Per le considerazioni espresse si è consapevoli che in tali realtà professionali la posizione del familiare-collaboratore è sottoposta a sperequazione, perché privo di idonea copertura assicurativa e previdenziale, ma, allo stato attuale, tertium non datur.

Il professionista imprenditore

Tale soluzione muta ove vengano sovvertite le premesse iniziali e si ritenga che la posizione del professionista sia assimilabile a quella dell'imprenditore e il relativo studio venga sostanzialmente parificato all'azienda nel significato delineato dall'art. 2555 c.c.

L'evoluzione della normativa è nel senso di tale prospettazione, specie laddove ci si trovi al cospetto di realtà produttive in cui predomini, non già l'attività intellettuale del professionista, ma la struttura organizzativa complessivamente considerata.

Valga considerare infatti la svolta operata dall'art. 10 della L. n. 183/11 sulla riforma degli ordini professionali che ha previsto la possibilità di costituire società per l'esercizio di attività professionali regolamentate secondo i modelli societari di cui ai titoli V e VI del libro V del codice civile.

Anche la giurisprudenza di legittimità ha esortato il cambiamento.

E infatti con recente decisione i Giudici della Suprema Corte hanno ritenuto che è ammissibile l'assimilazione dell'attività del professionista all'attività aziendale o d'impresa, laddove lo studio possegga significative e consistenti risorse umane e strumentali che consentano di superare la tradizionale concezione dell'opera intellettuale in favore di tendenze aventi ad oggetto la commercializzazione e specializzazione di prodotti e servizi destinati al mercato. Testualmente è stato affermato che “[…] anche gli studi professionali possono essere organizzati in forma di azienda, ogni qualvolta al profilo personale dell'attività svolta si affianchino un'organizzazione di mezzi e strutture, un numero di titolari e dipendenti ed un'ampiezza di locali adibiti all'attività, tali che il fattore organizzativo e l'entità dei mezzi impiegati sovrastino l'attività professionale del titolare, o quanto meno si pongano, rispetto ad essa, come entità giuridica dotata di una propria rilevanza strutturale e funzionale che, seppure non separata dall'attività del titolare, assuma una rilevanza economica”.

In tale evenienza l'attività del professionista è classificabile come attività imprenditoriale e lo studio professionale può essere ricondotto alla definizione di impresa, con la conseguenza che il professionista che si avvale di personale dipendente è tecnicamente datore di lavoro e ove tra di essi vi siano anche familiari questi, nel momento in cui prestino attività di lavoro, potranno formalizzare il proprio rapporto negli schemi della collaborazione di cui all'art. 230 bis c.c.

Ma tale situazione non è pertinente alla situazione che occupa.

Il caso concreto

Tizio professionista abilitato risulta titolare di un piccolo studio professionale, composto da tre stanze in cui prestano la propria attività due dipendenti con mansioni impiegatizie. Dall'esame dei fatti risulta che anche la moglie di Tizio si reca occasionalmente presso lo studio per aiutare il coniuge a disbrigare incombenze inerenti alle attività professionali e beneficiare così indirettamente dei guadagni del marito. Tali circostanze sono state riscontrate dal personale della DTL che ha effettuato l'accesso presso lo studio di Tizio. Nell'occasione gli ispettori hanno accertato che la posizione di uno dei due impiegati non risultava preventivamente comunicata al Servizio per l'impiego e per l'effetto hanno adottato maxi-sanzione per lavoro nero. Per quanto riguarda invece la posizione di Caia gli ispettori hanno ritenuto che l'apporto fornito dalla stessa travalicasse gli ambiti dei diritti-doveri familiari per assurgere a prestazione lavorativa in relazione alla quale non era stata formalizzata alcuna comunicazione agli Enti previdenziali e assicurativi. Gli ispettori non hanno tuttavia ricondotto il rapporto di Caia nell'alveo della subordinazione, ma in quello della collaborazione familiare di cui all'art. 230 bis c.c. Per l'effetto non hanno applicato la maxi-sanzione, ma hanno solo valutato l'irregolare posizione di Caia ai fini dell'adozione del provvedimento di sospensione dell'attività dello studio professionale.

In ciò, a giudizio degli scriventi, si appunta l'errore degli ispettori.

Non v'è dubbio che il professionista Tizio assuma il ruolo di datore di lavoro rispetto al personale impiegatizio occupato presso lo studio professionale. E infatti gli ispettori della DTL, una volta accertato che il rapporto di lavoro di uno dei due impiegati non risultava preventivamente comunicato al Servizio per l'Impiego, hanno correttamente adottato maxisanzione per lavoro nero. Ma per quanto riguarda la posizione di Caia si è dell'avviso che la stessa non era tecnicamente qualificabile come lavoratrice irregolare. Valga infatti considerare che l'irregolarità del rapporto viene parametrata dalla circolare n. 33 del 2009 del Ministero del Lavoro rispetto al lavoratore, così come definito nell'art. 2 del T.U. n. 81/08: “persona che, indipendentemente dalla tipologia contrattuale, svolge un'attività lavorativa nell'ambito dell'organizzazione di un datore di lavoro pubblico o privato, con o senza retribuzione, anche al solo fine di apprendere un mestiere, un'arte o una professione esclusi gli addetti ai servizi domestici e familiari […]”. E l'attività di Caia, per le modalità in cui la stessa è stata svolta e per le finalità solo indirettamente patrimoniali che l'hanno ispirata, secondo gli scriventi, avrebbe dovuto essere valutata come esercizio dei diritti e doveri familiari. Valga inoltre considerare che a favore di tale soluzione depone anche la natura dell'attività professionale di Tizio che, in quanto non imprenditoriale, non ammette per costui la possibilità di avvalersi dello schema collaborativo previsto dall'art. 230 bis c.c.

Tale osservazione evidenzia d'altro canto l'illegittimità del provvedimento di sospensione adottato dagli ispettori.

L'art. 14, D.lgs n. 81/08, così come interpretato dalla circolare n. 33/2009 del Ministero del Lavoro, stabilisce, tra l'altro, che l'adozione di tale provvedimento postula l'impiego di lavoratori irregolari, indipendentemente dalla tipologia del rapporto, nell'ambito delle “attività imprenditoriali”.

Sennonché, come sopra descritto, Tizio è professionista intellettuale e pertanto non è imprenditore ai sensi dell'art. 2082 c.c.. Conseguentemente l'attività da costui esercitata non può definirsi “attività imprenditoriale” ai sensi dell'art. 14, D.lgs 81 cit., giacché lo studio professionale risulta avere un assetto organizzativo modesto e di piccole dimensioni e pertanto in alcun modo parificabile a un'azienda tecnicamente intesa. Tali assimilazioni, come osservato dalla Suprema Corte, sarebbero ipotizzabili solo a fronte di strutture professionali articolate sotto il profilo strumentale, organizzativo e di risorse umane e che giustificherebbero, in presenza dei presupposti di cui all'art. 14 del D.lgs. n. 81 cit., l'adozione del provvedimento di sospensione.

In definitiva gli scriventi ritengono che Tizio possa impugnare in maniera fondata il provvedimento di sospensione al fine di conseguirne l'annullamento, formulando eventualmente anche azione di risarcimento per il danno ingiustamente subìto.


NOTE

i Ove si parli di professionisti intellettuali occorre poi distinguere tra professioni “protette” il cui esercizio è subordinato, ai sensi dell'art. 2229 c.c. all'iscrizione in appositi albi ed elenchi (es. avvocato, consulente) e professioni “non protette” giacché possono essere esercitate liberamente anche in assenza di siffatte iscrizioni (es. agenti di pubblicità).

ii Cfr. Cass. civ. Sez. V, 22/07/2004, n. 13677.

iii Per una nozione in senso ampio di datore di lavoro cfr. risposta a interpello n. 33 del 2011 del Ministero del Lavoro.

iv Si segnala anche l'abrogazione operata dall'art. 2 del D.L. 4 luglio 2006, n. 223 conv., con mod. nella L. 4 agosto 2006, n. 248 del divieto di fornire all'utenza servizi professionali di tipo interdisciplinare da parte di società di professionisti.

v Cfr. Cass. civ. Sez. II, 09/02/2010, n. 2860.

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