Fallimenti, tribunali divisi
Pubblicato il 30 ottobre 2006
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Con il debutto della nuova disciplina sul diritto fallimentare emergono due diversi orientamenti in ordine all’applicazione delle novità alle procedure ora in corso, che provocano un dissenso non di poco conto ove si consideri che tra vecchie e nuove regole le differenze sono assolutamente rilevanti, ad esempio quanto alle competenze degli organi della procedura.
Più precisamente, si discute se la regolamentazione del ricorso secondo la vecchia normativa sancita dall’articolo 150 del Dlgs numero 5/2006 si fermi alla sua definizione in senso stretto, coincidente con la risposta giudiziale alla domanda, o se la definizione del ricorso coincida con la chiusura del fallimento.
Attraverso la riforma, il ruolo del giudice delegato ha subito un ridimensionamento, a “svantaggio” del curatore e del comitato dei creditori, cui sono affidati altri pesanti incarichi.
Le correzioni al tradizionale sistema hanno intaccato settori come quello relativo alle procedure per l’accertamento del passivo o la disciplina del concordato fallimentare e la possibilità della liberazione dai debiti residui.
Vale rammentare che la seconda parte della riforma è entrata il vigore il 16 luglio scorso, dopo che, nella primavera del 2005, nell’ambito del dl competitività n. 35/2006, era stata anticipata la revisione delle revocatorie e del concordato preventivo.
Oggi, restano molte le criticità del nuovo diritto concorsuale, ad un anno e mezzo dall’entrata in vigore della prima parte della riforma e a pochi mesi dall’entrata in vigore della seconda. Uno tra i principali nodi ad aver tenuto impegnati gli organi di giurisdizione, concerne il ruolo dell’autorità giudiziaria nel nuovo concordato preventivo. E, in questo contesto, la giurisprudenza sembra largamente propendere nel senso di riconoscere all’autorità giudiziaria – pur spogliata del potere di valutare nel merito la convenienza del concordato – l’altro potere di valutare la “fattibilità” del piano.
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