Due recenti pronunce della Corte di cassazione e del Tribunale di Roma in tema di licenziamento per giustificato motivo oggettivo e connessa tutela reale o indennitaria.
Con sentenza n. 13643 del 19 maggio 2021, la Corte di cassazione ha confermato la decisione con cui la Corte d’appello, nel riconoscere l’illegittimità di un licenziamento per giustificato motivo oggettivo, aveva dichiarato risolto il rapporto di lavoro intercorso tra datore di lavoro e lavoratore a far data dal recesso.
Per l’effetto, la società datrice di lavoro era stata condannata a corrispondere al dipendente un’indennità risarcitoria omnicomprensiva quantificata in quindici mensilità di retribuzione.
Nella vicenda esaminata, era stata accertata una situazione di crisi aziendale di carattere non temporaneo, crisi che non era stata risolta alla data del licenziamento intimato per effetto della riorganizzazione e soppressione del posto di lavoro.
Secondo i giudici di merito, atteso che il giustificato motivo oggettivo si identificava con la generica esigenza di riduzione di personale omogeneo e fungibile, la società avrebbe dovuto individuare il soggetto da licenziare estendendo la parametrazione a tutti i dipendenti in servizio nella sede di riferimento, che avevano lo stesso inquadramento.
Non sarebbe stato applicabile, difatti, il criterio della soppressione della posizione lavorativa né quello dell’impossibilità del repechage visto che le posizioni lavorative erano equivalenti e che, quindi, tutti i lavoratori erano potenzialmente licenziabili.
Tutto ciò premesso, la Corte di gravame aveva ritenuto che alla fattispecie in esame fosse applicabile il comma 5 dell’art. 18 della Legge n. 300/1970, disponendo, ossia, non la reintegra del dipendente nel posto di lavoro bensì solo la condanna del datore al pagamento di un’indennità risarcitoria, quantificandola in considerazione della non rilevante anzianità del lavoratore e delle dimensioni dell’impresa.
Il dipendente si era rivolto alla Suprema corte, lamentando, tra gli altri motivi, il fatto che la sentenza impugnata non conteneva alcun riferimento all’esistenza di un nesso causale tra la riorganizzazione ed il licenziamento intimato.
Per il ricorrente, la mancata dimostrazione di tale nesso si traduceva nell’insussistenza del fatto posto a base del recesso, imponendo l’applicazione della disciplina di cui al comma 4 dell’art. 18 citato e, quindi, dell’obbligo di reintegrazione nel posto di lavoro.
Sul punto, la Suprema corte ha sottolineato come il regime sanzionatorio introdotto dalla Legge Fornero preveda, in caso di licenziamento per GMO, di regola, la corresponsione di un’indennità risarcitoria compresa tra un minimo di 12 e un massimo di 24 mensilità, mentre il ripristino del rapporto di lavoro, con un risarcimento fino a un massimo di 12 mensilità, è riservato a quelle ipotesi residuali, che fungono da eccezione, nelle quali l’insussistenza del fatto posto alla base del recesso sia connotata di una particolare evidenza.
Gli Ermellini hanno quindi rammentato come, secondo la giurisprudenza, il concetto di “manifesta insussistenza” del fatto posto a base di un recesso per giustificato motivo oggettivo vada riferito “ad una evidente e facilmente verificabile assenza di presupposti giustificativi del licenziamento che consenta di apprezzare la chiara pretestuosità del recesso”.
Si deve trattare, ossia, di una chiara, evidente e facilmente verificabile assenza dei presupposti di legittimità del recesso, cui non può essere equiparata una prova meramente insufficiente.
Nel caso in esame, era stata comunque accertata l’esistenza di una situazione di crisi aziendale e il recesso era stato giudicato illegittimo in quanto il procedimento seguito dal datore per individuare il soggetto da licenziare non era rispondente ai principi generali di correttezza e buona fede che dovrebbero governare la scelta.
Si trattava, in definitiva, di una violazione idonea a dare luogo alla tutela indennitaria e non alla reintegra.
A diverse conclusioni è giunto il Tribunale di Roma, con sentenza del 4 maggio 2021, in riferimento ad altra vicenda, sempre relativa ad un licenziamento per giustificato motivo oggettivo.
In questo caso, alla declaratoria di illegittimità del recesso è stata accompagnata l’applicazione della tutela reale, ossia la reintegrazione sul posto di lavoro della dipendente a cui era stato illegittimamente intimato il licenziamento.
Nella fattispecie in esame, il Tribunale ha evidenziato come parte datoriale non avesse dato prova dell'impossibile ricollocamento della lavoratrice ricorrente, ammettendo, anzi, espressamente, che il licenziamento non era effetto della riorganizzazione aziendale, ma piuttosto che la quest'ultima era mero effetto del licenziamento medesimo.
E’ stato riconosciuto, così, che si trattava di un’ipotesi di manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo.
In proposito, i giudici di merito hanno ricordato una fattispecie analoga in cui la Corte di cassazione aveva ravvisato l'illegittimità del licenziamento, con conseguente applicazione dell'art. 18, comma 4, per non essere stata, tra l'altro, in alcun modo provata dal datore la impossibilità di ricollocare il lavoratore in altra postazione lavorativa, “risultando così integrata la evidente e facilmente verificabile assenza di uno dei presupposti giustificativi del licenziamento cui è riferibile il suddetto requisito”.
Da qui l’accertamento dell'illegittimità del licenziamento intimato alla ricorrente, con condanna della società datrice alla reintegrazione della stessa nel posto di lavoro ed al pagamento di indennità pari a 12 mensilità della retribuzione globale di fatto percepita dalla dipendente.
Ai sensi dell'individuazione delle modalità semplificate per l'informativa e l'acquisizione del consenso per l'uso dei dati personali - Regolamento (UE) n.2016/679 (GDPR)
Questo sito non utilizza alcun cookie di profilazione. Sono invece utilizzati cookie di terze parti legati alla presenza dei "social plugin".