Il danno da demansionamento non è in re ipsa, ma necessita di apposita allegazione da parte di chi lo lamenti. Può tuttavia legittimamente ricavarsi anche in via presuntiva o mediante ricorso a massime di comune esperienza.
E’ quanto enunciato dalla Corte di Cassazione, Sezione lavoro, in relazione ad una vicenda di demansionamento del dipendente di una banca, che aveva richiesto ed ottenuto in giudizio di essere adibito alle mansioni corrispondenti alla sua qualifica, oltre al risarcimento del danno subito.
Quanto al risarcimento, in particolare, la banca qui ricorrente lamentava gravi carenze di allegazione in proposito, essendo il danno da demansionamento – a suo dire – non un danno evento, bensì un danno conseguenza; come tale rigorosamente da provare.
Ma secondo la Corte Suprema, nel caso di specie, la prova del danno è stata tuttavia riscontrata, sia pure mediante presunzioni, considerando la lunga durata della dequalificazione (oltre tre anni e mezzo), la mortificazione dell’immagine professionale e delle esperienze lavorative già acquisite, la marginalizzazione della posizione del dipendente e la conseguente perdita di contatto con i settori più qualificati dell’attività bancaria.
Sicché la pronuncia impugnata – secondo la Cassazione con sentenza n. 20677 del 13 ottobre 2016 – essendosi attenuta agli indici sintomatici quali elementi utilizzabili in via presuntiva nel danno da dimensionamento, non merita censura.
Per la liquidazione del suddetto danno patrimoniale, risarcibile necessariamente in via equitativa, infine, è ammissibile il parametro della retribuzione.
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