Assenza ingiustificata. Licenziamento per giusta causa

Pubblicato il 31 marzo 2020

Confermato il licenziamento per giusta causa irrogato ad una dipendente che si era collocata autonomamente in ferie alla scadenza del periodo di comporto.

La Corte di cassazione, con sentenza n. 7566 del 27 marzo 2020, ha respinto il ricorso promosso da una lavoratrice contro la decisione con cui i giudici di secondo grado avevano ritenuto che la sanzione espulsiva comminatale dal datore di lavoro fosse fondata e giustificata.

Nel caso in esame, la donna, dopo essere stata in malattia per oltre 60 giorni, aveva provveduto a mettesi in ferie autonomamente, senza formulare alcuna richiesta di autorizzazione al godimento.

Visita medica prima dell'assegnazione delle mansioni

Secondo la Corte d’appello, non poteva ritenersi che la società datrice di lavoro si fosse resa inadempiente all’obbligo di sorveglianza sanitaria di cui alla lett. e-ter) dell’art. 41, comma 2, D.Lgs. n. 81/2008 che impone la visita medica del prestatore alla ripresa del lavoro.

Tale visita medica – avevano evidenziato i giudici di gravame - avrebbe dovuto effettuarsi anteriormente alla concreta assegnazione della dipendente alle sue mansioni, che è momento però non coincidente con la ripresa dell'attività lavorativa, ossia con la formale presentazione nel luogo di lavoro.

Se è vero che il lavoratore, dopo un periodo di malattia protratto per oltre 60 giorni, può, in assenza di visita medica, legittimamente rifiutarsi ex art. 1460 c.c. di eseguire le mansioni incompatibili con il suo stato di salute - posto che l’omissione della visita medica costituisce grave e colpevole inadempimento del datore di lavoro - è anche vero che lo stesso prestatore non può astenersi dal presentarsi sul posto di lavoro, una volta venuto meno il titolo giustificativo della sua assenza.

E nella vicenda in esame, la lavoratrice si era del tutto rifiutata di tornare al lavoro ed aveva continuato l’assenza, impedendo, di fatto, di essere sottoposta a visita.

La decisione di secondo grado, come detto, è stata confermata dalla Suprema corte, la quale ha giudicato infondati tutti i motivi di doglianza sollevati dalla ricorrente.

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