Sicurezza sul lavoro: membri del Consiglio di amministrazione responsabili?

Pubblicato il 13 novembre 2023

In materia di prevenzione degli infortuni sul lavoro, è errato attribuire la qualifica di datore di lavoro a tutti i membri del consiglio di amministrazione di una società, qualifica che spetta unicamente al legale rappresentante dell'ente.

Con sentenza n. 43819 del 31 ottobre 2023, la Corte di cassazione ha annullato, con rinvio, la decisione confermativa della penale responsabilità di due imputate, nelle loro vesti di membri del Consiglio di amministrazione di una cooperativa che gestiva impianti di funivia, per alcune violazioni delle norme antinfortunistiche.

Tali violazioni erano emerse dopo gli accertamenti effettuati a seguito del tragico incidente occorso ad un dipendente.

Le imputate si erano rivolte alla Suprema corte, contestando che le predette violazioni potessero essere loro attribuite.

Secondo la loro difesa, infatti, il "datore di lavoro" - su cui gravava l'onere di apprestare le misure antinfortunistiche - era da individuarsi nel presidente della cooperativa, il quale ne aveva la legale rappresentanza, considerando anche che non era stata conferita alcuna delega alla sicurezza.

Consigliere di amministrazione non è datore di lavoro

La Terza sezione penale della Cassazione ha giudicato fondato il loro ricorso.

I giudici di merito avevano ravvisato la penale responsabilità delle ricorrenti, nell'anzidetta veste di consiglieri di amministrazioni, richiamando il principio in forza del quale, nelle società di capitali, gli obblighi inerenti alla prevenzione degli infortuni posti dalla legge a carico del datore di lavoro graverebbero indistintamente su tutti i componenti del consiglio di amministrazione, salvo il caso di delega, validamente conferita, della posizione di garanzia.

Orientamento, questo, minoritario, rispetto al quale la Corte ha ritenuto più convincente la diversa lettura, propugnata da numerose decisioni, secondo cui, in materia di prevenzione degli infortuni sul lavoro, destinatario della normativa antinfortunistica in una impresa strutturata come persona giuridica è il suo legale rappresentante, quale persona fisica attraverso cui l'ente collettivo agisce nel campo delle relazioni intersoggettive.

Di conseguenza, la responsabilità penale del predetto, ad eccezione delle ipotesi di valida delega, deriva dalla sua qualità di preposto alla gestione societaria ed è indipendente dallo svolgimento, o meno, di mansioni tecniche.

Si tratta di un'interpretazione da preferire perché rispettosa dal dato normativo: invero, ai sensi dell'art. 2 D. Lgs. n. 81/2008, datore di lavoro è "il soggetto titolare del rapporto di lavoro con il lavoratore o, comunque, il soggetto che, secondo il tipo e l'assetto dell'organizzazione nel cui ambito il lavoratore presta la propria attività, ha la responsabilità dell'organizzazione stessa o dell'unità produttiva in quanto esercita i poteri decisionali e di spesa".

Attribuire, quindi, la qualifica di datore di lavoro a tutti i componenti del Cda della società significherebbe operare un'indebita estensione della definizione di "datore di lavoro".

E nella vicenda esaminata, la Corte di merito aveva errato nel ravvisare la penale responsabilità delle due imputate sul solo presupposto che, in capo alle stesse, fosse attribuibile la qualifica di "datore di lavoro", qualifica che, come detto, spettava unicamente al legale rappresentante dell'ente, ossia al presidente della cooperativa.

Componente del Cda, quando può dirsi responsabile?

Nel testo della pronuncia, gli Ermellini hanno quindi ricordato come, in tema di violazione della normativa antinfortunistica, la penale responsabilità dei uno o più membri del consiglio di amministrazione possa configurarsi in almeno due casi:

La sentenza impugnata, come detto, aveva affermato la penale responsabilità delle imputate sul solo ed unico presupposto (errato) della qualifica di "datore di lavoro" asseritamente rivestita ma non aveva accertato se, nella specie, a carico delle ricorrenti potesse configurarsi una responsabilità nei termini appena riportati.

Da qui l'annullamento della decisione impugnata, con rinvio per un nuovo esame ad altra sezione della Corte appello.

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