Sfogo su Facebook per fatto ingiusto? Licenziamento sproporzionato

Pubblicato il 05 novembre 2024

Con la sentenza n. 26446 del 10 ottobre 2024, la Corte di cassazione, Sezione lavoro, si è pronunciata su un caso di licenziamento disciplinare che vedeva coinvolta una lavoratrice, accusata di aver pubblicato sul social media Facebook frasi offensive e denigratorie nei confronti della propria azienda e del suo amministratore delegato.

La vicenda aveva avuto origine da una serie di problematiche legate alla salubrità degli ambienti di lavoro, aggravate da un episodio in cui vi è stata una fuoriuscita di sostanze tossiche che aveva causato l'intossicazione di alcuni dipendenti, compreso il marito della lavoratrice, anche lui dipendente della stessa azienda.

Licenziamento per post su Facebook: annullato se lo sfogo è per fatto ingiusto

Le pronunce dei giudici di merito

In primo grado, il Tribunale aveva respinto le richieste avanzate dalla lavoratrice che contestava il licenziamento.

Tuttavia, in secondo grado, la Corte d'Appello aveva annullato il provvedimento di licenziamento, ordinando la reintegrazione della lavoratrice nel posto di lavoro e riconoscendole un risarcimento nella misura massima di dodici mensilità dell'ultima retribuzione.

La Corte di merito aveva motivato la decisione sulla base dell'esimente dello stato d'ira, rilevando che la reazione della dipendente era scaturita da una situazione percepita come ingiusta, legata a questioni di sicurezza negli ambienti lavorativi.

Le affermazioni, ossia, rappresentavano uno sfogo emotivo della lavoratrice a seguito di un evento interpretato come un'ingiustizia, ovvero l'intossicazione del marito, causata da condizioni ambientali di lavoro insalubri. Queste condizioni erano già state segnalate dai lavoratori in più occasioni, senza alcuna risposta concreta da parte dell'azienda.

Di fronte alla decisione d'appello, l'azienda ha presentato ricorso in Cassazione, contestando vari aspetti della sentenza, tra cui l'interpretazione data alla gravità delle affermazioni come "delitto" e l'omessa valutazione del comportamento come possibile insubordinazione.

La decisione della Cassazione

La Cassazione ha respinto il ricorso della datrice di lavoro, confermando la correttezza della valutazione della Corte d'Appello.

Secondo la Cassazione, le espressioni utilizzate dalla dipendente rappresentavano uno “sfogo” emotivo, derivante dallo stato d'ira suscitato dalla percezione di un trattamento ingiusto.

Per tale ragione, la Suprema corte ha escluso la configurazione di un delitto che avrebbe giustificato una sanzione espulsiva, ovvero un licenziamento senza preavviso.

La Corte di cassazione, ossia, pur riconoscendo rilievo disciplinare alle affermazioni della dipendente, ha stabilito che la gravità del comportamento non raggiungeva il livello necessario per giustificare un licenziamento immediato.

Ha quindi confermato il reintegro della dipendente nel posto di lavoro.

Da segnalare, infine, il diverso esito che ha avuto un'analoga vicenda, in cui la Corte di cassazione - con ordinanza n. 27601 del 24 ottobre 2024 - ha confermato il licenziamento di un dipendente che aveva pubblicato sulla pagina Facebook di un collega commenti minacciosi e ingiuriosi contro un dirigente. 

Tabella di sintesi della decisione

Sintesi del caso Una dipendente è stata licenziata per aver pubblicato su Facebook un post offensivo verso l’azienda e un dirigente, in un contesto di problematiche ambientali.
Questione dibattuta Se il post della dipendente costituisse motivo di licenziamento per giusta causa, valutando la gravità dell'offesa e l’applicabilità dell’esimente dello stato d’ira.
Soluzione della Corte di Cassazione La Cassazione, pur riconoscendo valore disciplinare alle affermazioni della dipendente, ha stabilito che la gravità del comportamento non era tale da giustificare il licenziamento. Ha confermato il reintegro nel posto di lavoro.
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