E’ illegittimo il sequestro preventivo disposto nei confronti di una parente, se non venga spiegato come la stessa abbia concretamente agito per consentire ai coniugi ritenuti colpevoli di sottrarsi al pagamento delle imposte.
A chiarirlo, la Corte di Cassazione, terza sezione penale, accogliendo il ricorso dell’indagata avverso il decreto di sequestro preventivo sui propri beni, per aver – secondo il riesame - attraverso atti fraudolenti, consentito la consumazione da parte della sorella ed il cognato, di plurimi reati, tra cui la sottrazione al pagamento delle imposte.
In materia di provvedimenti cautelari - rammenta in proposito la Corte Suprema – per valutare il fumus commissi delicti, il giudice non può avere riguardo alla sola astratta configurabilità del reato, ma deve tener conto, in modo puntuale e coerente, delle risultanze processuali e della effettiva situazione emergente dagli elementi forniti dalle parti, indicando pur sommariamente le ragioni che rendono sostenibile l’impostazione accusatoria e plausibile un giudizio prognostico negativo per l’indagato.
Orbene – proseguono gli ermellini – il Tribunale, nella specie, non pare aver fatto corretta applicazione di detti principi, essendosi limitato, quanto alla odierna ricorrente, a sottolineare la sua posizione di sorella rispetto alla persona ritenuta colpevole (con il marito) di sottrarre i propri beni all'Erario in ordine al pagamento delle imposte. Oltretutto, in tal modo spostando sulla stessa indagata l’onere di fornire elementi dimostrativi della mancanza di fumus.
Sicché, in definitiva – conclude la Corte con sentenza n. 41493 del 4 ottobre 2016 – il provvedimento impugnato non ha spiegato da quali elementi sia stato tratto il convincimento che l’indagata abbia consapevolmente consentito ai coniugi di sottrarsi al debito tributario. Va dunque annullato con rinvio al Tribunale.
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