I rapporti tra azione di risoluzione contrattuale e di risarcimento integrale dei danni, da una parte, e azione di recesso e di ritenzione della caparra, dall’altro, si pongono in termini di assoluta incompatibilità strutturale e funzionale.
E’ quanto precisato dalla Corte di cassazione, Terza sezione civile, con sentenza n. 24337 del 30 novembre 2015, confermando il principio sancito dalle Sezioni unite civili con sentenza n. 553/2009.
Secondo la Corte di legittimità, una volta proposta la domanda di risoluzione del contratto volta al riconoscimento del diritto al risarcimento integrale dei danni asseritamente subiti non è consentita la trasformazione della medesima in domanda di recesso con ritenzione della caparra.
Diversamente, verrebbe a vanificarsi la stessa funzione della caparra, quella, ossia, di consentire una liquidazione anticipata e convenzionale del danno volta ad evitare l’instaurazione di un giudizio contenzioso, consentendosi inammissibilmente alla parte non inadempiente di “scommettere” puramente e semplicemente sul processo, senza rischi di sorta.
Nella medesima pronuncia, i giudici della Terza sezione precisano di non condividere l'orientamento espresso nella isolata sentenza di Cassazione n. 24841/2011, dove viene affermato che la parte, in sostituzione della domanda di adempimento o di risoluzione per inadempimento con domanda di risarcimento, può legittimamente invocare la facoltà di cui all’articolo 1385 c.c., comma 2, costituendo, tale modificazione “legittimo esercizio di un perdurante diritto di recesso rispetto alla domanda di adempimento, ed un’istanza più ridotta rispetto all’azione di risoluzione”.
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