Il datore di lavoro che adotta ripetutamente una serie di provvedimenti disciplinari nei confronti sempre dello stesso lavoratore, non è automaticamente indice di una condotta che rientri nella fattispecie di “mobbing”. Il potere disciplinare, infatti, fa parte dell’ampia concezione di “fare impresa” da parte del datore di lavoro, tant’è che è esclusa la condotta persecutoria del datore di lavoro anche laddove i provvedimenti stessi sono stati giudicati reiterati e illegittimi. Dunque, affinché il lavoratore possa lamentare un danno da mobbing subito deve materialmente dimostrare le conseguenze della condotta persecutoria e illecita del datore di lavoro.
Così hanno deciso i giudici della Suprema Corte, con l’ordinanza n. 22288 del 5 settembre 2019, in merito a un dipendente di banca che ha subito reiterati provvedimenti (trasferimenti, contestazioni disciplinari, esoneri dal servizio, ecc), nei fatti giudicati illegittimi.
Secondo il lavoratore, tutti i provvedimenti disciplinari adottati dal datore di lavoro erano frutto di un disegno complessivo finalizzato alla sua emarginazione ed estromissione dall’azienda, cosa in effetti avvenuta con dimissioni rassegnate per giusta causa.
Tuttavia, la domanda volta a ottenere il risarcimento dei danni patrimoniali (perdita di chances) e non patrimoniali subiti in conseguenza di queste condotte è stata respinta sia in primo che secondo grado di giudizio.
A detta dei giudici della Corte d’Appello di Catania i diversi provvedimenti (disciplinari e non) adottati dal datore di lavoro, pur essendo risultati in larga misura illegittimi, non avevano carattere offensivo e persecutorio, in quanto trovavano comunque fondamento in circostanze oggettive che consentivano di spiegare le ragioni della loro adozione.
Dello stesso avviso sono i giudici di legittimità. Secondo gli ermellini, infatti, i provvedimenti adottati dal datore di lavoro erano fondati su fatti non pretestuosi, seppure poi erano stati ritenuti di volta in volta, per motivi differenti, illegittimi in sede giudiziale. Dunque, considerato che i provvedimenti adottati avevano un reale collegamento con l’attività aziendale, non è possibile qualificare gli atti stessi come persecutori, ingiuriosi e offensivi. In tali casi, quindi, non è possibile ritenere sussistente un fenomeno di mobbing.
Molto spesso si tende a collegare automaticamente l’illegittimità di uno o più provvedimenti disciplinari con il diritto al risarcimento del danno per la natura ingiuriosa della condotta aziendale. La pronuncia s’inserisce proprio nello spazio intermedio tra queste due situazioni, stabilendo che il provvedimento aziendale, anche se giudicato illegittimo, ma basato su fatti reali, non costituisce in alcun modo indice di persecuzione verso il dipendente.
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