Risponde di bancarotta per distrazione il titolare dell’impresa individuale che utilizza uno stesso conto per la ditta e per le spese personali e non impiega il ricavato della cessione dell’azienda per pagare i debiti dell'impresa ma per esigenze di famiglia.
Confermata la condanna per il reato di bancarotta fraudolenta distrattiva impartita dai giudici di merito al titolare di un’impresa individuale, dichiarata fallita.
L'imputato aveva impugnato la decisione davanti alla Suprema corte censurando un vizio di motivazione posto che, a suo dire, mancava l'elemento soggettivo del reato contestato in quanto la ditta fallita rientrava nel novero dei piccoli imprenditori ed essendovi coincidenza tra il conto dell'azienda e quello personale, tale conto era stato utilizzato tanto per le spese personali e familiari, quanto per le necessità della ditta individuale.
Secondo la sua difesa, inoltre, non era da ritenere illogico il fatto che il denaro presente nel conto fosse stato utilizzato anche per il soddisfacimento di interessi propri e per il mantenimento del proprio nucleo familiare; ciò posto, il suo contegno non poteva valere a integrare una condotta di tipo distrattivo, col fine di sottrarre beni posti a garanzia dei creditori, come invece sostenuto dalla Corte territoriale.
Tali doglianze sono state giudicate manifestamente infondate dalla Corte di cassazione, per come si apprende dalla lettura della sentenza n. 33107 del 25 novembre 2020.
Per gli Ermellini, il fatto che l’imputato aveva dichiarato di aver utilizzato il denaro ricevuto per la vendita dell'azienda non già per pagare i debiti della sua ditta, ma per soddisfare proprie esigenze personali era di per sé sufficiente per ritenere inammissibile il suo ricorso.
In proposito, la Quinta sezione penale ha richiamato i principi più volte affermati in sede di legittimità, secondo i quali "integra gli estremi del delitto di bancarotta fraudolenta per distrazione ogni forma di ingiustificata e diversa destinazione volontariamente data al patrimonio rispetto ai fini che questo deve avere nell'impresa, quale elemento necessario per la sua funzionalità e quale garanzia verso i terzi".
Di conseguenza, la cosciente e volontaria destinazione dei beni o del denaro di pertinenza dell'azienda, per scopi estranei all'impresa, costituisce distrazione intesa come operazione diretta a ledere interesse patrimoniale dei creditori.
Ad integrare l'elemento soggettivo del reato – si legge ancora nella decisione - è sufficiente il dolo generico, “dal momento che è necessario che l'agente, perseguendo un interesse proprio o di terzi estranei all'impresa, abbia coscienza e volontà di porre in essere atti incompatibili con gli interessi della stessa, in quanto aventi quale conseguenza la lesione del patrimonio aziendale, la diminuzione delle garanzie patrimoniali e l'indebolimento della posizione dei creditori”.
In tale contesto, la circostanza della coincidenza tra il conto dell'azienda e quello personale risultava irrilevante al fine di escludere la condotta distrattiva: nonostante la confusione sul conto corrente delle entrate personali, rispetto a quelle di pertinenza dell'impresa, l'imputato avrebbe dovuto destinare il ricavato della cessione d'azienda al soddisfacimento dei creditori, senza disperdere la garanzia patrimoniale per bisogni personali.
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