È stato definito illegittimo il criterio secondo il quale la promozione in ambito lavorativo si basa su un punteggio proporzionato al regime orario (part time o tempo pieno). Dunque, trattasi di una forma di discriminazione indiretta se, nella sua concreta applicazione, colpisce solo una categoria di dipendenti.
A stabilirlo è la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 21801 del 29 luglio 2021, allineandosi agli orientamenti della Corte di giustizia europea in tema di discriminazione sui luoghi di lavoro.
Nel caso di specie, l’Agenzia delle Entrate – nell’ambito di un concorso interno bandito per attribuire una progressione economica (promozione di lavoro) – ha adottato un criterio basato sul punteggio relativo alla “esperienza di servizio”, riproporzionato per i lavoratori part time in ragione del minore orario di lavoro svolto.
Tale criterio di valutazione è stato impugnato da una dipendente, la quale sosteneva che la sua applicazione concreta produceva una discriminazione nei confronti delle lavoratrici donne. Questo perché il sesso femminile faceva largamente uso di orario a tempo parziale.
In prima battuta, il Tribunale aveva accertata la discriminazione, mentre la Corte d’Appello l’aveva esclusa.
Sul punto, la Suprema Corte ha affermato che l’utilizzo di un criterio oggettivo e apparentemente neutro come il punteggio legato all’anzianità di servizio, riparametrato in relazione all’orario di lavoro, può risultare illegittimo se in concreto penalizza la maggioranza delle donne.
Per arrivare a questa conclusione, la sentenza critica il metodo adottato dalla Corte d’appello per valutare la sussistenza di un trattamento discriminatorio. Secondo la Corte di Cassazione, il concorso interno avrebbe dovuto verificare quanti dipendenti di sesso maschile risultavano danneggiati dall’applicazione del criterio dell’anzianità riproporzionata (in quanto lavoratori part time) e quante dipendenti di sesso femminile erano colpite dall’applicazione del medesimo criterio.
Se da questo confronto fosse emersa una percentuale significativamente prevalente di donne, i giudici d’appello avrebbero dovuto accertare la sussistenza di un effetto discriminatorio.
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