E’ da escludersi che la mera attribuzione della qualità di “omosessuale” – attinente alle preferenze sessuali di un individuo – abbia di per sé un carattere lesivo della reputazione del soggetto passivo, tale da integrare il reato di diffamazione. E ciò tenendo conto dell’evoluta percezione della circostanza da parte della collettività.
E’ quanto chiarito dalla Corte di Cassazione, annullando la condanna di un imputato per reato di diffamazione commesso ai danni di un soggetto, che aveva identificato come “omosessuale” nell’ambito di una querela sporta nei confronti di altra persona.
In particolare, ha precisato la Corte con sentenza n. 50659 del 29 novembre 2016, va escluso che il termine “omosessuale” utilizzato dall'imputato, abbia conservato nel presente contesto storico un significato intrinsecamente offensivo, come, forse poteva ritenersi in un passato nemmeno tanto remoto.
A differenza di altri appellativi difatti - che veicolano il medesimo concetto con chiaro intento denigratorio - secondo i canoni del linguaggio corrente, il termine in questione assume un carattere di per sé neutro, limitandosi ad attribuire una qualità al soggetto evocato ed, in tal senso, entrato nell'uso comune.
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