Corte di cassazione: nel determinare l’imposta evasa vanno considerati anche i costi aziendali non contabilizzati che vengano documentati dai fornitori dell’impresa.
E’ stata annullata, dalla Cassazione, la condanna penale impartita al titolare di una ditta individuale accusato di omessa presentazione delle dichiarazioni fiscali relative alle imposte dirette e ad Iva, in tal modo evadendo tale ultima imposta in misura superiore alla soglia di punibilità.
La Corte d’appello, nel dichiarare inammissibile l’impugnazione presentata dall’imputato, aveva osservato che i costi asseritamente affrontati dal contribuente per la produzione del reddito, non essendo stati contabilizzati, non erano stati conteggiati ai fini del calcolo del reddito imponibile.
L’interessato aveva promosso ricorso davanti ai giudici di legittimità, censurando la motivazione in oggetto, definita dallo stesso apparente in relazione al ritenuto superamento della soglia di punibilità, in quanto non erano stati conteggiati gli elementi passivi di reddito, sebbene parte di essi fossero stati documentati dagli stessi fornitori dell’impresa.
Con sentenza n. 34661 del 20 settembre 2021, la Terza sezione penale della Suprema corte ha giudicato fondata la predetta doglianza.
In proposito, la Corte di cassazione ha ricordato quanto dalla stessa già enunciato in materia: ai fini della configurabilità dei reati in materia di Iva, la determinazione della base imponibile e della relativa imposta evasa – dati rilevanti ai fini dell’accertamento del superamento della soglia di punibilità – deve avvenire solo sulla base dei costi effettivamente documentati, non rilevando l’eventuale sussistenza di costi non documentati.
Di questi, tuttavia, è possibile tenere conto, laddove dimostrati in relazione alle ipotesi delittuose aventi ad oggetto – come nella specie – anche l’evasione delle imposte dirette.
A seguire – rammenta la Corte – è stato anche precisato che l’eventuale accertamento di ulteriori elementi reddituali, può essere eseguito tenendo conto di tutti gli elementi - costi ricavi, proventi e oneri – che concorrono alla loro formazione.
In particolare, la determinazione dell’imposta sul valore aggiunto evasa deve essere eseguita attraverso la contrapposizione tra l’Iva risultante dalle fatture emesse e l’Iva detraibile sulla base delle fatture ricevute, senza che tale calcolo possa ritenersi ineseguibile sulla sola base del difetto di allegazione di eventuali fatture passive incombente sull’imputato, dovendo tenersi conto anche degli altri elementi probatori certi acquisiti agli atti.
Nella vicenda in esame, tuttavia, la Corte di gravame, nella verifica sulla correttezza della quantificazione del reddito imponibile, non aveva fatto buon governo dei principi appena richiamati.
Essa aveva infatti osservato che la mera non contabilizzazione dei costi aziendali era di per sé ostativa alla loro valorizzazione e ciò a prescindere dal fatto che, per come dedotto dal ricorrente, essi sarebbero comunque emersi dalla documentazione acquisita dalla Guardia di Finanza presso i soggetti che avevano avuto rapporti commerciali con l’imputato.
Inoltre, era stato anche aggiunto che il fatto che questi costi, anche se computati, non avrebbero comportato il mancato superamento della soglia, era fattore che rendeva tale operazione non rilevante.
Argomentazione, questa, che a detta degli Ermellini non era ragionevolmente sostenibile in quanto la maggiore o minore gravità del reato dipende, per questo genere di reati, in misura significativa proprio dalla entità dell’evasione fiscale realizzata.
Da qui l’annullamento, con rinvio, della decisione impugnata.
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