La Corte di cassazione si è pronunciata sulla vicenda giudiziaria di un lavoratore che si era opposto al licenziamento intimatogli dal datore di lavoro in quanto ritenuto ritorsivo.
I giudici di legittimità, in particolare, hanno fornito precisazioni in ordine all’onere della prova del licenziamento per ritorsione nonché dei principi che presiedono il relativo accertamento.
Nella vicenda oggetto del giudizio di legittimità, il dipendente di una società, assunto come operaio specializzato con mansioni di incisore, aveva ricevuto, al momento del rientro in servizio dopo una lunga malattia, una lettera di licenziamento motivata dalla scelta organizzativa di chiudere il settore dove egli lavorava per il calo delle relative commesse, con conseguente soppressione della posizione e della funzione da lui ricoperte e dell’impossibilità di ricollocamento in altre mansioni uguali o equivalenti.
La Corte d’appello aveva accolto il reclamo del dipendente contro il provvedimento espulsivo, dichiarando la nullità del medesimo perché intimato per ritorsione; da qui la condanna della datrice a reintegrare il deducente nel posto di lavoro e a risarcirgli il danno in misura pari alle retribuzioni dal giorno di licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione.
I giudici di merito avevano, infatti, osservato che, a fronte del materiale probatorio emerso, non si era in presenza di un’ipotesi di ristrutturazione aziendale, bensì di mera riduzione delle mansioni del reclamante relative alla cessazione di alcune lavorazioni. Inoltre, era stata anche dimostrata l’assunzione, dopo il licenziamento, di una nuova dipendente, formalmente inquadrata come impiegata ma di fatto addetta anche alle lavorazioni a cui era destinato il reclamante.
La Corte di secondo grado aveva così concluso per l’insussistenza di un giustificato motivo oggettivo e, per contro, per la presenza di un motivo ritorsivo, espressivo della volontà di rappresaglia per la prolungata assenza del dipendente per malattia.
Intento che poteva ritenersi dimostrato per presunzioni, ma non dalla sola circostanza della contiguità temporale tra il rientro in servizio e l’intimazione del recesso, né come mero riflesso dell’infondatezza del motivo oggettivo, quanto piuttosto alla stregua di una valutazione complessiva della vicenda e in applicazione delle comuni regole di esperienza.
La Suprema corte, con sentenza n. 23583 del 23 settembre 2019, ha confermato le conclusioni di merito puntualizzando, in primo luogo, che, in ipotesi di domanda proposta dal lavoratore ai fini della nullità del licenziamento ritorsivo, spetti al dipendente l’onere della prova di quest’ultimo carattere.
L’onere probatorio, in detto contesto, può essere assolto con la dimostrazione di elementi specifici tali da far ritenere con sufficiente certezza l’intento di rappresaglia del datore, intento che deve aver avuto efficacia determinativa esclusiva della volontà del datore di lavoro.
Secondo la giurisprudenza di legittimità, infatti, per accordare la tutela che l’ordinamento riconosce in presenza di licenziamento per ritorsione, occorre che l’intento ritorsivo datoriale abbia avuto efficacia determinativa esclusiva della volontà di recedere dal rapporto di lavoro, anche rispetto ad altri fatti rilevanti ai fini della configurazione di una giusta causa o di un giustificato motivo.
Principi, questi, correttamente applicati nella decisione impugnata, posto che i giudici di merito avevano esaminato la domanda incentrata sulla natura ritorsiva del licenziamento dopo aver escluso la sussistenza, in concreto, del giustificato motivo oggettivo addotto da parte datoriale a fondamento del recesso.
In considerazione, poi, di una valutazione complessiva della vicenda, era stato concluso che il licenziamento del reclamante, dal punto di vista oggettivo e soggettivo, non presentava altra spiegazione che il collegamento causale con l’assenza per malattia.
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