Licenziamento collettivo, accordo conciliativo fuori dai limiti

Pubblicato il 08 giugno 2021

Con sentenza n. 15118 del 31 maggio 2021, la Corte di Cassazione ha affermato che la procedura conciliativa, prevista dall’art. 7 della L. n. 604/1966 ed effettuata presso l’Ispettorato del Lavoro, non deve essere intesa quale licenziamento e come tale l’eventuale accordo conciliativo non deve rientrare nel calcolo del limite dei cinque recessi nell’arco di 120 giorni, al fine della sussistenza dell’obbligo di attivare la relativa procedura di licenziamento collettivo.

Infatti, i giudici della Suprema Corte hanno evidenziato come nel numero minimo di 5 licenziamenti, ivi considerato come sufficiente ad integrare l’ipotesi del licenziamento collettivo, non possono includersi altre differenti ipotesi risolutorie del rapporto di lavoro, ancorché riferibili all’iniziativa del datore di lavoro.

Procedura di licenziamento collettivo, il caso

Nel caso di specie, una lavoratrice era stata licenziata in tronco per pretese ragioni oggettive consistenti nella necessità di ridurre i costi fissi e nella contrazione del valore della produzione. Secondo la dipendente le condizioni economiche della società non rendevano affatto necessaria la soppressione del suo posto di lavoro, avvenuta solo per una scelta di mera opportunità d'impresa.

La società, però, replicava che:

Sul punto, la Corte d'Appello di Trieste ha qualificato il licenziamento come licenziamento collettivo ed accertata di conseguenza l'illegittima omissione da parte della società datrice di lavoro della procedura di cui all'art. 24, co. 1 quinquies della L. n. 223\1991, condannava la società a pagare alla lavoratrice un'indennità pari a 18 mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto.

La società ricorre in Cassazione denunciando:

Criteri licenziamento collettivo, la sentenza

La Suprema Corte accoglie i motivi del ricorso. Secondo gli ermellini, l'espressione “intenda licenziare” di cui all'art. 24 della L. n. 223\1991 è una chiara manifestazione della volontà di recesso, pur necessariamente ancorata al fatto che i licenziamenti non possono essere intimati se non successivamente all'iter procedimentale di legge.

Mentre cosa ben diversa è l'espressione “deve dichiarare l'intenzione di procedere al licenziamento per motivo oggettivo” ai sensi del novellato art. 7 L. n. 604\1966, che è invece imposta al fine dì intraprendere la nuova procedura di compensazione (o conciliazione) dinanzi alla DTL, e non può quindi ritenersi di per sé un licenziamento.

Deve poi osservarsi che alla luce di una corretta interpretazione dell'art. 1, paragrafo 1, primo comma, lett. a) della Direttiva 98/59/CE del Consiglio del 20 luglio 1998 (concernente il riavvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di licenziamenti collettivi), rientra nella nozione di “licenziamento” il fatto che un datore di lavoro proceda, unilateralmente ed a svantaggio del lavoratore, ad una modifica sostanziale degli elementi essenziali del contratto dì lavoro per ragioni non inerenti alla persona del lavoratore stesso, da cui consegua la cessazione del contratto di lavoro, anche su richiesta del lavoratore medesimo.

Una tale interpretazione, conforme alla citata giurisprudenza della Corte di Giustizia, comporta il superamento della precedente in merito all'art. 24 L. n. 223/1991, anche alla luce del D.Lgs. n. 151/1997 di attuazione alla Direttiva comunitaria 26 giugno 1992, n. 56, nel senso che nel numero minimo di 5 licenziamenti, ivi considerato come sufficiente ad integrare l'ipotesi del licenziamento collettivo, non possono includersi altre differenti ipotesi risolutorie del rapporto di lavoro, ancorché riferibili all'iniziativa del datore di lavoro.

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