Lavori in quota: regole di condotta del datore di lavoro

Pubblicato il 05 luglio 2021

Per i lavori in quota il legislatore individua nei dispositivi di protezione collettiva “lo strumento di maggior tutela per la sicurezza dei lavoratori”, prioritari tra i criteri da seguire nella scelta delle attrezzature di lavoro. L'adozione di dispositivi di protezione individuale è sempre configurabile come una scelta subordinata laddove non sia logico adottare un'attrezzatura di lavoro più sicura. E’ quanto statuisce la Cassazione Penale, Sez. 4 del 30 giugno 2021, n. 24908.

La sentenza si distingue per l’analisi ragionata dell’art. 111 del T.U. della sicurezza sul lavoro che coglie lo schema logico disegnato dal legislatore per regolare la condotta del datore di lavoro idonea a garantire la sicurezza dei lavoratori adibiti a lavori in quota.

Lavoro in quota in un cantiere edile e morte del lavoratore 

In un cantiere edile erano in corso lavori ad opera di una ditta costruttrice appaltatrice e della sua subappaltatrice. Un dipendente di quest’ultima, mentre eseguiva delle misurazioni su una trave prefabbricata sita all'altezza di circa 6 metri dal suolo insieme ad un collega, scivolava, cadeva a terra e, a seguito delle gravi lesioni riportate, decedeva.

Le ispezioni condotte rilevavano l’assenza nel cantiere di linee vita e l’adibizione del lavoratore, al momento dell'infortunio, ad attività pienamente rientranti nelle sue mansioni, consistenti nella misurazione delle travi della struttura in edificazione in vista della posa sulle stesse del solaio.

Il giudice di primo grado aveva ritenuto responsabile la società subappaltatrice datrice di lavoro di non aver predisposto nel cantiere le linee vita, individuando ai sensi del D. Lgs. n.231/2001 il requisito dell'interesse o il vantaggio per l'ente nell'illecito risparmio sulle spese per la sicurezza.

In secondo grado, la Corte di Appello, in riforma della sentenza di primo grado, rideterminava la sanzione pecuniaria irrogata alla ditta subappaltatrice ai sensi dell'art 12, comma 3 del Dlgs. n. 231/2001 e confermava la condanna per il datore di lavoro in relazione al reato di omicidio colposo (art. 589, commi 1 e 2, cod. pen. ) per aver cagionato la morte del dipendente, avendo omesso, in violazione dell'art. 111, comma 1 lett. a), D.Lgs. 9 aprile 2008, n. 81, di predisporre il sistema di protezione individuale che avrebbe consentito al lavoratore di ancorarsi durante il lavoro in quota. 
 

Adozione dei dispostivi di protezione individuale e responsabilità 231

L’imputato datore di lavoro propone ricorso per cassazione basato su tre motivi. In particolare, con il primo motivo di ricorso, si deduce vizio di motivazione in ordine all'asserita impossibilità dell'impiego dei dispositivi di protezione collettiva rappresentati dalle piattaforme elevatrici e, con il secondo, l’omessa motivazione in merito alle peculiarità della posizione di garanzia del datore di lavoro rispetto alla posizione di dirigenti e preposti. 

Tre i motivi di ricorso per cassazione anche per la ditta subappaltatrice che deduce, in sintesi, la nullità ai sensi dell'art. 178 lett.c) cod. proc. pen., per omessa nomina da parte del pubblico ministero, nella fase delle indagini preliminari, di un difensore d'ufficio nonché per l’inosservanza ed erronea applicazione dell'art. 5, comma 1, d. lgs. n. 231/2001 sul riconoscimento del vantaggio della persona giuridica.

Responsabilità 231/2001: procedura speciale

La Cassazione esamina preliminarmente la questione di nullità proposta dalla ditta subappaltatrice rilevando che l'accertamento della responsabilità delle imprese per illeciti amministrativi dipendenti da reato segue forme di procedura speciali individuate dagli artt.34-82 del D.Lgs. n.231/2001. 

Il legislatore coniuga esigenze di effettività dell'accertamento ad esigenze di garanzia del diritto di difesa dell'ente strettamente correlate alla vicinanza dell'illecito amministrativo al fatto-reato. In particolare, sul dubbio interpretativo concernente la nozione di «partecipazione» in relazione alla fase delle indagini preliminari, viene richiamato il principio emesso dalla Corte di Cassazione a Sezioni Unite secondo il quale la disciplina speciale dettata in tema di responsabilità degli enti, che impone la formalizzazione della rappresentanza dell'ente sin dalle prime fasi del procedimento, opera dall'invio dell'informazione di garanzia all'ente (Sez. U, n. 33041 del 28/05/2015, Gabrielloni, Rv. 26431301). 

Sicurezza dei lavoratori che operano 'in quota': regole di condotta

Con riferimento poi alle questioni di merito, la Cassazione ritiene fondato il primo motivo del ricorso proposto dal datore di lavoro, ritenendolo assorbente rispetto ad ogni altra censura proposta dalle parti ricorrenti.

Il giudice di legittimità ritiene necessario esaminare dettagliatamente l’impianto normativo di cui all’ art. 111 del T.U. della sicurezza sul lavoro.

Lo spunto della disamina è offerto dai rilievi mossi nella sentenza di primo grado (il datore di lavoro «non ha ottemperato allo specifico obbligo derivante a suo carico dall'art.111, comma 1 lettera a), in quanto ha omesso di predisporre il previsto sistema di protezione individuale per consentire al lavoratore di ancorarsi durante il lavoro in quota») nonché nella sentenza di appello («il D.Lgs. 81/2008 contiene specifiche prescrizioni atte a garantire la sicurezza dei lavoratori che si trovino ad operare 'in quota' (art. 111) ponendo in capo al datore di lavoro l'obbligo di provvedere affinchè le condizioni di lavoro siano sicure, predisponendo misure di protezione sia 'collettive' che 'individuali ...emerge con chiarezza dal materiale probatorio raccolto in sede di istruttoria dibattimentale l'insufficienza delle misure di protezione predisposte nel cantiere»).

Rileva la Corte che l'art. 111 D.Lgs. n.81/2008 illustra, legandola ad un preciso schema logico, la condotta del datore di lavoro che il legislatore ha ritenuto idonea a garantire la sicurezza dei lavoratori che devono eseguire lavori in quota.

Più nel dettaglio, l’art.111, comma 1 lettera a) prevede che debba essere data priorità alle misure di protezione collettiva rispetto alle misure di protezione individuale. La ratio di tale indicazione, rileva la Cassazione, risiede nel fatto che i dispositivi di protezione collettiva sono atti ad operare indipendentemente dal fatto, ed a dispetto del fatto, che il lavoratore abbia imprudentemente omesso di utilizzare il dispositivo di protezione individuale.

L’art. 111, comma 2 consente al datore di lavoro di scegliere il tipo più idoneo tra i sistemi di accesso ai posti di lavoro temporanei in quota. Viene quindi valorizzata la possibilità per il datore di lavoro di optare, in relazione allo stato di fatto, per un sistema piuttosto che per un altro.

L’art. 111, comma 4 prevede che il datore di lavoro possa disporre l'impiego di sistemi di accesso e di posizionamento mediante funi solamente nelle circostanze in cui risulti che l'impiego di un'altra attrezzatura di lavoro considerata più sicura non sia giustificato per la breve durata di utilizzo ovvero per caratteristiche del luogo non modificabili. 

L’art. 111 comma 5 impone l'obbligo di minimizzare i rischi insiti nelle attrezzature scelte. La responsabilità colposa del datore di lavoro per l'omissione di ulteriori cautele atte a minimizzare il rischio di caduta è pertanto correlata al sistema prescelto dal datore di lavoro.

L'art. 111, comma 6, sancisce la regola in base alla quale solo l'esecuzione di lavori di natura particolare può giustificare l'eliminazione temporanea di un dispositivo di protezione collettiva contro le cadute che dovrà, in ogni caso,  essere immediatamente ripristinato una volta terminato il lavoro di natura particolare.

Obblighi antinfortunistici e lavori in quota: come valutare l’inadempimento del datore di lavoro

Analizzando la norma nel suo complesso e le regole cautelari individuate dal legislatore per i lavori in quota, la Cassazione rileva che il legislatore indica espressamente che “i dispositivi di protezione collettiva sono da considerare lo strumento di maggior tutela per la sicurezza dei lavoratori, sia in quanto vengono indicati come prioritari tra i criteri da seguire nella scelta delle attrezzature di lavoro, sia in quanto l'adozione di attrezzature di protezione individuale o di sistemi di accesso e posizionamento mediante funi è indicata quale scelta subordinata nel caso in cui, per la durata dell'impiego e per le caratteristiche del luogo, non sia logico adottare un'attrezzatura di lavoro più sicura”. 
Alla luce di tale principio la Suprema Corte ritiene non corretta l'impostazione e lo schema logico-motivazionale seguiti nelle sentenze dei due gradi di merito.

I giudici di merito avrebbero dovuto infatti analizzare la violazione della regola cautelare ascrivibile al datore di lavoro secondo lo schema indicato dal legislatore e, solo all'esito di tale esame, procedere a valutare l'incidenza causale della violazione accertata sull'evento.

In conclusione, la Corte di Cassazione annulla la sentenza con rinvio alla Corte di Appello per un nuovo esame.

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