La Cassazione Civile, Sezione Lavoro, con ordinanza 20 maggio 2021, n. 13861, si pronuncia sulle deroghe al divieto di licenziamento intimato alla lavoratrice madre per cessazione dell'attività della azienda, di cui all’articolo 54, comma 3, lettera b) del T.U maternità.
Qualsiasi datore di lavoro è tenuto a rispettare il regime di tutela rafforzato che l’ordinamento ha predisposto nei confronti della lavoratrice madre nel periodo protetto che va dall’inizio della gravidanza e fino al compimento di un anno del bambino.
In tale periodo le lavoratrici madri non possono essere licenziate pena la nullità del recesso, con reintegrazione nel posto di lavoro.
Sfuggono al generale divieto di licenziamento alcune ipotesi di deroga espressamente previste dall’art. 54 comma 3 del T.U. maternità (D.Lgs. 151/2001).
Più dettagliatamente, il divieto di licenziamento non si applica nel caso:
Con riferimento all’ipotesi di cessazione dell'attività aziendale, di cui al punto b dell’art. 54 citato e oggetto di nuovo pronunciamento della Corte di Cassazione con l’ordinanza 20 maggio 2021, n. 13861, gli indirizzi interpretativi espressi dalla giurisprudenza di legittimità sono cambiati nel corso del tempo.
In passato, gli Ermellini avevano fornito una interpretazione estensiva della norma (vedasi da ultimo Cassazione n. 7752/1986) riconoscendo l’applicabilità della deroga al divieto di licenziamento anche in caso di cessazione di un ramo di attività o di un reparto autonomo dell’impresa, purchè il datore di lavoro desse prova dell’impossibilità di reinserimento della lavoratrice in un’altra struttura o reparto.
Attualmente l’orientamento interpretativo consolidato dei giudici di legittimità è quello di escludere la possibilità di una interpretazione estensiva ed analogica dell’art. 54 comma 3 del T.U. maternità. Viene pertanto osservato il principio in base al quale la deroga al divieto di licenziamento valida dall'inizio della gravidanza al compimento dell'età di un anno del bambino opera solo in caso di cessazione dell'intera attività aziendale (si veda, da ultimo, Cassazione n. 14515 del 6 giugno 2018).
Tanto premesso torniamo al caso dell’ordinanza n. 13861 del 2021.
Una lavoratrice madre licenziata per cessazione dell'attività della azienda presenta al Tribunale competente ricorso avverso il provvedimento dell’INPS di diniego dell’indennità di maternità nel periodo di astensione facoltativa per puerperio.
Il ricorso viene rigettato e la lavoratrice presenta ricorso alla Corte di Appello che, confermando la decisione di primo grado, rigetta il ricorso sostenendo che, essendo stata la lavoratrice licenziata per cessazione dell'attività della azienda, la stessa non avesse diritto alla indennità, trattandosi di causa di recesso derogativa rispetto al generale divieto di licenziamento della lavoratrice madre stabilito dalla legge n. 151/2001 (art. 54).
La lavoratrice madre presenta ricorso per Cassazione deducendo la violazione e falsa applicazione dell'art. 54, comma 3 lett.b) del D.Lgs n. 151/2001, per avere, la corte di appello, erroneamente affermato che il divieto di licenziamento della lavoratrice madre è escluso solo nel caso di cessazione totale dell'attività aziendale, non valutando l'operatività del divieto anche nel caso di cessazione dell'attività di un ramo d'azienda o reparto autonomo cui la lavoratrice è addetta, in merito richiamando la sentenza della Cassazione n. 14515/2018.
L’INPS resiste con controricorso.
La Corte di Cassazione rileva che “la censura non coglie il decisum”. La lavoratrice madre (ricorrente) non ha controdedotto e allegato nulla a fronte del rilievo fatto, dal giudice del merito, circa l'assenza di allegazioni in ordine alla ipotesi di cessazione solo parziale dell'attività aziendale (del singolo ramo o reparto cui era addetta), ma si è limitata semplicemente a richiamare principi di diritto. Non sono stati infatti allegati, nella censura, la lettera di recesso, le circostanze di fatto circa la parziale chiusura aziendale e la indicazione di dove, come e quando tali circostanze fossero state poste concretamente all'interno degli atti processuali.
Pertanto il motivo fondante il ricorso per Cassazione (violazione e falsa applicazione dell'art. 54, comma 3 lett.b) del D.Lgs n. 151/2001) non trova nessun appiglio.
La corte di merito, sostengono gli Ermellini, “non ha errato nell'applicare la norma relativa al divieto di licenziamento della lavoratrice madre ed a trarne conseguenze quanto alle tutele, poichè la circostanza di parziale cessazione dell'attività è rimasta estranea alle allegazioni proposte”.
Aderendo poi all’indirizzo interpretativo espresso dal Cassazione n. 22720/2017 e secondo cui "in tema di tutela della lavoratrice madre, la deroga al divieto di licenziamento di cui all'art. 54, comma 3, lett. b), del d.lgs. n. 151 del 2001, dall'inizio della gestazione fino al compimento dell'età di un anno del bambino, opera solo in caso di cessazione dell'intera attività aziendale, sicché, trattandosi di fattispecie normativa di stretta interpretazione, essa non può essere applicata in via estensiva od analogica alle ipotesi di cessazione dell'attività di un singolo reparto dell'azienda, ancorché dotato di autonomia funzionale"(), la Suprema Corte rigetta il ricorso ritenendo la censura priva della necessaria specificazione.
La lavoratrice madre, al fine della tutela invocata, avrebbe dovuto allegare nel processo le circostanze di fatto necessarie all’applicazione del disposto normativo, quali la parzialità della chiusura aziendale e la ragione concreta del recesso datoriale.
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