Le disposizioni di carattere penale intese a sanzionare l'indebito conseguimento del reddito di cittadinanza, così come gli effetti penali connessi, continuano ad applicarsi fino a fine anno.
L'indebita percezione del beneficio, infatti, ha tuttora rilevanza penale, attesa la perdurante applicazione dell'art. 7 del Dl n. 4/2019, ancora in vigore.
Lo ha ribadito la Corte di cassazione nel testo della sentenza n. 49047 del 11 dicembre 2023, nel richiamare l'orientamento di recente affermato con decisione n. 37836/2023, favorevole alla perdurante configurabilità del reato in esame nel regime transitorio che porterà alla definitiva abrogazione del reddito di cittadinanza, prevista per il 1° gennaio 2024.
Nel caso posto all'attenzione del Collegio di legittimità, la Corte di appello aveva confermato la penale responsabilità di un imputato per il delitto di cui all'art. 7 comma 2, Dl n. 4/2019, contestatogli per aver omesso, nella veste di percettore del reddito di cittadinanza, di comunicare all'Inps l'avvio di attività di lavoro dipendente.
L'imputato si era rivolto alla Suprema corte deducendo, tra i motivi, la violazione dell'art. 606, comma 1, lett. b) c.p.p. in relazione all'art. 1, comma 318, della Legge di bilancio 2023 (n. 197/2022), atteso l'effetto abrogativo della norma incriminatrice, verificatosi, a suo dire, con l'entrata in vigore della Legge richiamata.
La doglianza è stata giudicata infondata dalla Terza sezione penale della Cassazione, alla luce dell'argomentazione già esposta nel precedente sopra ricordato.
Con la Legge n. 197/2022 - hanno ribadito gli Ermellini - è stata disposta, fra l'altro, l'abrogazione degli artt. da 1 a 13 del Decreto-legge n. 4/2019, istitutivo del reddito di cittadinanza.
Tra le norme abrogate vi è anche l'art. 7 del detto provvedimento, contenente le previsioni di carattere penale che sanzionano l'indebito conseguimento del beneficio economico.
Il legislatore, per espressa previsione di legge, ha fissato l'efficacia di tale effetto abrogativo alla data del 1° gennaio 2024.
A quanto detto consegue, altresì, la perdurante applicazione della previsione di cui all'art. 7, ancora in vigore, e degli effetti penali da esso previsti.
Per gli Ermellini, peraltro, va escluso che la previsione di cui all'art. 2, comma 2, c.p. - ai sensi del quale "nessuno può essere punito per un fatto che, secondo una legge posteriore, non costituisce reato", possa essere di ostacolo alla richiamata interpretazione.
Ai fini della legge penale, difatti, occorre fare riferimento alla normativa vigente sia al momento del fatto che al momento di celebrazione del giudizio.
E così, per effetto della menzionata clausola di postergazione dell'effetto abrogativo, il fatto attribuito all'imputato costituiva reato alla data di sua realizzazione e lo costituisce ancora al momento della decisione, "a nulla rilevando - se non che per gli eventuali, diversi, effetti del secondo periodo dell'art. 2, comma secondo, c.p. - la successiva, ancorché anteriormente prevista, abrogazione della norma incriminatrice".
In ogni caso, salvo ripensamenti del Legislatore, laddove si verificherà l'effetto abrogativo, sarà possibile, per il condannato, adire il giudice dell'esecuzione per ottenere la rimozione della sentenza di condanna ex art. 673 c.p.p.
Ciò - conclude la Corte - sempre che il fatto, già oggetto di incriminazione, non risulti astrattamente sussumibile in altre ipotesi di reato, in quanto, in tal caso, "il giudicato penale di condanna rimane intangibile".
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