Lo studio del Notariato n. 181-2017/T è dedicato alla nozione di immobile in corso di costruzione.
L’elaborato, approvato dalla relativa Commissione Studi il 15 giugno 2018, è stato pubblicato sul sito istituzionale del Consiglio nazionale del Notariato il 10 ottobre 2018.
Nello studio, in particolare, vengono esaminati i più recenti orientamenti della giurisprudenza in tema, appunto, di immobile in corso di costruzione e relativa definizione.
Nel dettaglio, gli autori fanno riferimento all’interpretazione resa dalla Corte di Cassazione nelle sentenze nn. 22757/2016; 23499/2016 e 22138/2017.
In queste pronunce, è stato affermato che l’immobile non ultimato, ceduto ad un consumatore finale che lo utilizza direttamente, anche se esercente un’attività d’impresa, non può essere considerato in corso di costruzione.
Questo con la conseguenza che, se l’immobile si considera ultimato, e trova applicazione l’articolo 10, comma 1, n. 8 – ter) del D.P.R. n. 633/1972, le imposte ipotecaria e catastale sono dovute nella misura “rinforzata” del 3 e dell’1 per cento.
Una lettura, questa, che i notai non ritengono condivisibile, posto che la nozione di immobile in corso di costruzione è rappresentata da una situazione “oggettiva” e di fatto, che ha riguardo all’effettivo stato in cui si trova il fabbricato.
Secondo il Notariato, infatti – si legge nelle premesse dello studio – “tale nozione non può mutare in ragione della natura del soggetto acquirente e delle modalità di utilizzo del fabbricato oggetto di acquisto”.
Così, se l’immobile non è stato ancora completato e, quindi, non è idoneo all’uso, il fabbricato deve essere considerato in corso di costruzione non assumendo alcun rilievo, al fine di tale nozione, la posizione soggettiva dell’acquirente.
Per lo studio, in definitiva, la nozione di fabbricato “completato” e non in corso di costruzione, elaborata dalla Corte di legittimità, “dà luogo alla mancata e non corretta applicazione dell’inversione contabile qualora l’impresa acquirente il fabbricato “virtualmente completato” dovesse appaltare ad altra impresa il completamento dello stesso”. Ne discenderebbe che le relative prestazioni, rese in esecuzione del contratto di appalto, “non configurerebbero attività di completamento (essendo l’immobile già ultimato) e come tali sarebbero soggette all’applicazione dell’Iva con i criteri ordinari”.
Detto contrasto – concludono i notai – prova l’infondatezza della tesi elaborata dalla Cassazione.
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