L’uso dei social network, dunque la diffusione di messaggi veicolati a mezzo internet, integra un’ipotesi di diffamazione aggravata ai sensi dell’art. 595 comma 3 c.p., in quanto trattasi di condotta potenzialmente in grado di raggiungere un numero indeterminato o, comunque, quantitativamente apprezzabile di persone, qualunque sia la modalità informatica di condivisione e di trasmissione.
E' il principio ribadito dalla Corte di Cassazione, quinta sezione penale, confermando la condanna per diffamazione aggravata di una studentessa universitaria, la quale, impiegando alcuni siti internet, aveva offeso la reputazione della ricercatrice che l’aveva assistita nella stesura della tesi, accusandola di aver copiato l’elaborato per fini personali.
Respingendo le censure della studentessa, la Cassazione spiega il motivo della riconosciuta aggravante ex art. 595 comma 3 c.p. (“se l’offesa è recata per mezzo stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità …”). Lo stesso dato testuale, difatti, rende evidente come la categoria dei mezzi di pubblicità sia più ampia del concetto di stampa, includendo tutti quei sistemi di comunicazione e diffusione – dai fax ai social media – che, grazie all'evoluzione tecnologica, rendono possibile la trasmissione dei dati e delle notizie ad un numero ampio o addirittura indeterminato di soggetti.
Né la circostanza, addotta dalla difesa, che gli scritti offensivi fossero stati diffusi dalla ricorrente tramite siti destinati ai soli operatori universitari delle scienze umane, toglie offensività alla condotta. Difatti – conclude la Corte con sentenza n. 8482 del 22 febbraio 2017 - molti dei siti impiegati (quali quelli destinati agli studenti, alle tesi on line e soprattutto i blog di note testate giornalistiche) appaiono chiaramente consultabile da un’assai più vasta platea di soggetti.
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