Le dichiarazioni spontanee rese dall’indagato anche in assenza del difensore e senza l’avviso di poter esercitare il diritto al silenzio, sono utilizzabili nella fase procedimentale, qualora emerga con chiarezza che il soggetto abbia scelto di renderle liberamente, senza alcuna coercizione o sollecitazione.
Dette dichiarazioni, infatti, hanno un perimetro di utilizzabilità circoscritto alla fase procedimentale e, quindi all’incidente cautelare ed agli eventuali riti a prova contratta, ma che non hanno alcuna efficacia probatoria in dibattimento.
In detto contesto, è l’organo giudicante a dover accertare, anche d’ufficio e sulla base di tutti gli elementi a sua disposizione, la effettiva natura spontanea delle stesse, dando atto di tale valutazione con motivazione congrua ed adeguata.
E’ quanto da ultimo statuito dalla Seconda sezione penale di Cassazione, nel testo della sentenza n. 26246 del 25 maggio 2017.
In particolare, i giudici di legittimità hanno precisato di non condividere la diversa lettura interpretativa, sostenuta da parte della giurisprudenza, secondo la quale qualunque dichiarazione, sia spontanea che sollecitata, assunta senza le garanzie di cui all’articolo 64 c.p.p. è radicalmente inutilizzabile in quanto la regola sancita dall’articolo 63, comma 2, c.p.p. avrebbe una portata generale, estensibile anche alle dichiarazioni raccolte d’iniziative dalla polizia giudiziaria.
Orientamento a cui la Suprema corte afferma di non aderire per diversi ordini di ragioni.
In primo luogo, viene sottolineato, la lettera dell’articolo 350, comma 7, c.p.p. è esplicita nel prevedere l’inutilizzabilità “relativa”, ossia solo dibattimentale delle dichiarazioni spontanee.
Inoltre, la norma appena citata sarebbe comunque compatibile con le indicazioni della normativa europea e, in particolar modo, con quelle di cui alla direttiva 2012/13/UE in materia di diritto di informazione dell’imputato e con le indicazioni fornite dalla corte Edu.
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