Sussiste il reato di emissione di fatture per operazioni inesistenti, qualora si fatturino come prestazioni di servizi per consulenze, quelle che sono invece ricezioni di somme illecitamente corrisposte nell'adempimento di un accordo corruttivo. E ciò ancorché dette somme siano state regolarmente pagate e riportate in contabilità.
Lo ha stabilito la Corte di Cassazione, sesta sezione penale, respingendo le censure di un imprenditore condannato per reato di corruzione per atti contrari ai doveri di ufficio, poiché, quale componente del collegio sindacale di una s.p.a., aveva messo a sua disposizione il proprio studio per incontri diretti a decidere il pagamento di compensi illeciti a pubblici ufficiali ed aveva predisposto falsa documentazione contabile al fine di creare la provvista per il pagamento delle dazioni corruttive.
Nella specie, secondo la Corte Suprema, appare in effetti evidente come una fattura emessa al fine di coprire l’erogazione di un importo effettuato per una causale completamente diversa da quella indicata, sia mendace e, quindi, tradisca la sua tipica funzione probatoria.
La mendacio suindicata è rilevante ai fini delle imposte dirette anche quando i costi coperti dal documento fittizio non siano riconosciuti dall'ordinamento, con riferimento alla causale effettiva, ai fini della determinazione dell’imponibile.
L’art. 8 D.Lgs. 74/2000 – ricorda la Cassazione – sanziona penalmente l’emissione di fatture inesistenti, non solo se questa attività sia commessa al fine di consentire l’evasione dell’imposta sul valore aggiunto, ma anche se la stessa sia indirizzata a determinare l’evasione dell’imposta sui redditi.
Ora nella determinazione dei redditi di cui all’art. 6 Dpr 917/1986 (Tuir) non sono ammessi in deduzione i costi e le spese dei beni o delle prestazioni di servizio direttamente utilizzabili per il compimento di attività considerate delitto non colposo. E nella specie – proseguono gli ermellini – non può dubitarsi circa la classificazione delle erogazioni di denaro a titolo di dazioni corruttive.
Per cui, qualora – come nel caso de quo – sia accertata l’emissione di fatture aventi ad oggetto costi in realtà non deducibili, ovvero recanti un' imposta sul valore aggiunto superiore a quella reale e risulti inoltre la piena consapevolezza dell’indebito vantaggio fiscale derivante dall'utilizzo di tali fatture, deve ritenersi integrato anche l’elemento psicologico del reato in questione. Invero l’art. 8 D.Lgs. 74 /2000 non richiede che il fine di evasione delle imposte sia esclusivo, ammettendo che lo stesso possa concorrere con un ulteriori finalità.
E nel caso in esame – conclude la Corte con sentenza n. 52321 del 9 dicembre 2016 – non sussiste alcun elemento idoneo ad ipotizzare che l’imputato, commercialista e sindaco in numerose città, non fosse pienamente consapevole dei vantaggi derivabili per la sua società dalla utilizzazione delle fatture emesse, comprensive di Iva, e recanti falsa causale delle “prestazione di consulenze tecniche e commerciali”, tanto sotto il profilo delle imposte sui redditi, quanto di quello sul valore aggiunto.
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