L’oggettivo impossibile conseguimento di ricavi “minimi” consente (è, si badi, una facoltà, non un obbligo) alla società non operativa di presentare istanza di disapplicazione delle disposizioni antielusive (la disciplina delle società di comodo avrebbe, per impostazione di legge e di prassi, finalità, appunto, antielusive), ex art. 37-bis, comma 8 del Dpr 600/73 (“interpello disapplicativo”). Un esito negativo, con rigetto dell’istanza ad opera del Fisco, porta una seconda possibilità: di adeguarsi, in dichiarazione, ai valori minimi richiesti. In mancanza, l’Ufficio fiscale emette l’atto di accertamento. Il contribuente può allora fondare la sua strategia di difesa proprio sull’aspetto “elusione”, se non altro sotto il profilo sostanziale del non comprendersi cosa vi sia di elusivo nell’intestare, con trasparenza, taluni beni a talune società. Giungono numerosi, in questi giorni, gli atti impositivi relativi, in particolare, all’annualità 2006, con oggetto le situazioni proprio dei contribuenti che hanno ricevuto il diniego dell’Amministrazione finanziaria all’istanza di interpello e che non hanno poi ritenuto adeguarsi ai valori minimi richiesti.
Si precisava più sopra come la presentazione dell’istanza di disapplicazione delle norme antielusive sia una facoltà. Ebbene, anche sotto il profilo procedurale, pare una forzatura disporre – com’è accaduto con documenti di prassi 5/E/2007 e 7/E/2009 – che in caso di mancata presentazione dell’istanza sia da ritenere inammissibile l’eventuale ricorso del contribuente “di comodo” contro l’accertamento basato sulla disciplina delle società non operative. Inoltre ed infine, sempre proceduralmente, l’inammissibilità del ricorso può essere decisa esclusivamente dal giudice tributario, nelle ipotesi di cui agli art. 18 e seguenti del Decreto legislativo n. 546 del 1992, tra cui non risulta un solo caso che disponga l’inammissibilità del ricorso per mancata presentazione dell’istanza di interpello delle società di comodo.
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