Con sentenza n. 11587 del 4 giugno 2015, la Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso di un avvocato, avverso la pronuncia di condanna di un Comune – suo cliente – al pagamento del compenso professionale.
Lamentava l'avvocato, in particolare, come i giudici di merito non avessero sufficientemente preso in considerazione, nella quantificazione degli onorari, la complessità' del processo nell'ambito del quale egli aveva prestato la sua attività difensiva.
Posto che tale censura – ha ribattuto la Cassazione– si sarebbe risolta in una vera e propria rivalutazione dei fatti nel merito (in tale sede non consentita), la stessa Corte ha tuttavia evidenziato la correttezza della quantificazione operata nei primi gradi di giudizio, sull'assunto che l'attività difensiva del ricorrente all'interno del maxiprocesso, sarebbe stata in realtà del tutto marginale.
L'altra censura mossa dall'avvocato, riguarda poi la falsa applicazione degli artt. 2, 4, 5 D.Lgs. 231/2002, laddove i giudici di merito non avevano considerato che c'era già stata - mediante atto con richiesta di pagamento – la messa in mora del Comune, per cui la Corte territoriale, sin dalla data del suddetto atto, avrebbe dovuto riconoscere anche la rivalutazione monetaria e gli interessi.
Invero la Suprema Corte, respingendo anche detta censura, ha espresso il principio secondo cui, in tema di diritti ed onorari dell'avvocato a carico del cliente, la disposizione comune alle tre tariffe (civile, penale e stragiudiziale contenuta nel D.M. 238/1992), prevede che gli interessi decorrano dal terzo mese successivo all'invio della parcella.
Tuttavia quando sorge una controversia tra il professionista ed il cliente circa il compenso per prestazioni professionali, il debitore non può essere ritenuto in mora fino alla liquidazione del debito, che avviene con l'ordinanza che conclude il procedimento della Legge 794/1942 art. 28. Sicché è a tale data e non prima – e nei limiti di quanto liquidato da giudice – che va riportata la decorrenza degli interessi.
Inoltre – ha poi precisato la Cassazione– il credito dell'avvocato per gli onorari è di valuta e non di valore, avendo ad oggetto una somma di denaro. Ne consegue che la sopravvenuta svalutazione monetaria non consente una rivalutazione d'ufficio, essendo necessaria un'apposita domanda di riconoscimento del maggior danno ex art. 1224 c.c. da parte del creditore con connesso onere probatorio; onere nella fattispecie – ha puntualizzato al Corte – mai assolto dal ricorrente.
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