La cessione del quinto dello stipendio al centro di una sentenza della corte di Cassazione, la n. 22362 del 7 agosto 2024, che si sofferma in particolare sulla legittimità o meno delle trattenute operate dal datore di lavoro sulla retribuzione del dipendente a titolo di costi di gestione amministrativi necessari all’espletamento della pratica.
Prima di entrare nel merito di quanto stabilito dagli ermellini, uno sguardo sull’istituto della cessione del quinto.
La cessione del quinto dello stipendio è un particolare tipo di prestito personale destinato a lavoratori dipendenti e pensionati, regolato dapprima dal Decreto presidente della Repubblica n. 180/1950 (Testo unico delle leggi concernenti il sequestro, il pignoramento e la cessione degli stipendi, salari e pensioni dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni) e, successivamente, dalla legge n. 80/2005 che ha esteso la platea dei beneficiari ai dipendenti privati.
Si tratta dunque di un finanziamento che qualunque lavoratore dipendente può richiedere per bisogni personali o per necessità di denaro liquido, senza obbligo di motivazione, da restituire cedendo al finanziatore fino a un quinto della pensione o dello stipendio.
In pratica, il datore di lavoro o l’ente previdenziale ti trattiene la rata dallo stipendio o dalla pensione e la versa al finanziatore.
I requisiti richiesti per accedere a questa forma di credito personale sono:
Per i dipendenti:
Per i pensionati:
Nel caso di specie, una società presentava ricorso in Cassazione contro la sentenza del giudice di appello che, confermando la pronuncia del Tribunale di primo grado, aveva stabilito che l’attività amministrativa di gestione delle cessioni del quinto dello stipendio dei lavoratori dovesse essere considerata un’ordinaria operazione di gestione del rapporto di lavoro, avendo l’azienda un ufficio amministrativo idoneo alla gestione del personale che si deve far carico di ogni operazione a tal fine necessaria.
Tali costi di gestione, sostiene la Suprema Corte nella sentenza 22362 del 7 agosto 2024, potrebbero in via teorica aggravare la posizione del datore di lavoro, debitore ceduto, considerata la mole delle cessioni o l’entità degli oneri da porsi in relazione all’organizzazione dell’impresa.
Per questo, la modificazione soggettiva del creditore non deve risultare eccessivamente gravosa per il debitore ceduto e deve rispettare i limiti di correttezza e buona fede che, in tal caso, riguardano non tanto la validità e l’efficacia del contratto di cessione del credito quanto il pagamento.
Occorre, dunque, valutare la gravosità dell’onere aziendale, che va commisurato alle dimensioni dell’impresa.
A tale proposito, la società ricorrente ha evidenziato la maggiore gravosità di costi, non rientranti nelle normali operazioni connesse al rapporto di lavoro, e pertanto non di competenza esclusiva datoriale, in quanto dipendenti da una libera scelta del lavoratore per esigenze personali.
I giudici di legittimità osservano innanzitutto che la cessione del credito consente di soddisfare esigenze del dipendente non estranee al rapporto di lavoro, ma anzi radicate in esso per effetto del riconoscimento normativo di un diritto potestativo del lavoratore ad ottenere finanziamenti mediate la cessione fino a un quinto dello stipendio.
L’onere amministrativo in capo al datore di lavoro va dunque valutato tenuto conto delle dimensioni dell’impresa che, in base al numero di dipendenti, è tenuta ad avere una struttura amministrativa corrispondente alla sua dimensione ex articolo 2086 del Codice civile.
Peraltro, rilevano gli ermellini, nel caso in cui l’onere sia effettivamente insopportabile per l’azienda, è ammesso un accordo in base al quale i costi vengono sopportati dalla società che eroga il finanziamento ma non certo sul lavoratore.
1. Qual è l'oggetto della sentenza?
La sentenza riguarda un ricorso in Cassazione presentato da una società contro una decisione di appello che confermava la sentenza di primo grado. La questione principale è la gestione dei costi amministrativi delle cessioni del quinto dello stipendio.
2. Chi ha presentato il ricorso?
Il ricorso è stato presentato da una società in merito alla cessione del quinto dello stipendio.
3. Cosa ha stabilito la sentenza di primo grado?
La sentenza di primo grado ha stabilito che l'attività amministrativa di gestione delle cessioni del quinto dello stipendio è una normale operazione di gestione del rapporto di lavoro, da svolgersi a carico del datore di lavoro.
4. Cosa ha confermato la sentenza di appello?
La sentenza di appello ha confermato la decisione del primo grado, riconoscendo che l'attività di gestione delle cessioni del quinto è parte integrante delle operazioni amministrative del datore di lavoro.
5. Qual è stato il verdetto della Cassazione?
La Cassazione ha confermato che i costi di gestione amministrativa potrebbero teoricamente aggravare la posizione del datore di lavoro. Tuttavia, tali costi devono rispettare i limiti di correttezza e buona fede e devono essere commisurati alle dimensioni dell’impresa.
6. Quali sono le principali osservazioni della Cassazione?
La Cassazione ha osservato che:
7. Quali sono le argomentazioni della società ricorrente?
La società ricorrente ha sostenuto che i costi di gestione delle cessioni del quinto sono più gravosi rispetto alle normali operazioni amministrative aziendali e non dovrebbero essere esclusivamente a carico del datore di lavoro poiché derivano da una scelta personale del lavoratore.
8. Qual è il principio normativo citato dalla Cassazione?
La Cassazione ha citato l'articolo 2086 del Codice Civile, che richiede che l'onere amministrativo sia commisurato alle dimensioni dell’impresa.
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