Autoriciclaggio. Falsità ideologica come delitto presupposto

Pubblicato il 01 marzo 2021

La Corte di cassazione, Seconda Sezione penale, ha annullato l’ordinanza con cui il Tribunale del riesame, confermando una decisione del GIP, aveva rigettato una richiesta di applicazione di misure cautelari personali nei confronti di un imputato.

Questo, nell’ambito di un’indagine in ordine ai delitti di autoriciclaggio e concorso nel trasferimento fraudolento di valori.

Il Pubblico ministero si era rivolto alla Suprema corte lamentando la violazione delle norme sostanziali e processuali che prescrivono l’obbligo di motivazione dell’ordinanza, nonché la manifesta illogicità del provvedimento impugnato, in conseguenza di un travisamento della prova.

Secondo il ricorrente, nel provvedimento di rigetto del GIP mancava l’indicazione delle ragioni che avevano portato ad escludere che i reati di falso contestati all’incolpato - e che avevano generato flussi di denaro trattandosi di falsi provvedimenti di liquidazione dei compensi in favore dell'amministratore giudiziario - potessero costituire il delitto presupposto delle operazioni di riciclaggio ed autoriciclaggio contestate.

Cassazione: falso ideologico come reato presupposto

Il Collegio di legittimità, con sentenza n. 7176 del 24 febbraio 2021, ha giudicato fondate le doglianze del Pm: per la Seconda sezione penale anche un reato contro la fede pubblica, quale la falsità ideologica commessa dal pubblico ufficiale in atti pubblici, può costituire delitto presupposto dell’autoriciclaggio, nel caso in cui sia fonte diretta dell’utilità economica oggetto dell’operazione di dissimulazione.

Gli Ermellini, in particolare, hanno risolto positivamente la questione attinente alla corretta applicazione dell'art. 648-ter, del Codice penale, relativamente alla possibilità di ricondurre il denaro che il ricorrente aveva asseritamente trasferito in un'ottica dissimulatoria ai delitti di falso.

Nella vicenda esaminata, infatti, la falsità concerneva proprio i provvedimenti che, in quanto decreti di pagamento, costituivano la diretta fonte dell'utilità economica percepita dall'amministratore giudiziario poi impiegata, secondo l'assunto accusatorio, nelle operazioni di autoriciclaggio.

Il quantum ottenuto, ciò posto, era di diretta derivazione causale col reato, in quanto era solo in forza del decreto di pagamento che il compenso era stato erogato (e, dunque, generato) e ne aveva stretta affinità poiché costituiva l'oggetto esclusivo dell'atto falso.

Secondo la Corte, inoltre, la circostanza che tale importo rappresentasse a monte un corrispettivo per una prestazione effettivamente svolta, anche se trovava la sua genesi nell'illecito corruttivo, non risultava dirimente ai fini dell'esclusione della gravità indiziaria.

L'incameramento della somma da parte di chi ne aveva diritto, infatti, era avvenuto mediante la commissione di un altro e differente delitto rispetto a quello iniziale da cui la prestazione resa causalmente si discostava.

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