Illegittimo non rinnovare il contratto d’opera a causa dell'orientamento sessuale del lavoratore autonomo. Applicabile, anche a quest'ultimo, la normativa Ue che vieta le discriminazioni fondate sull’orientamento sessuale.
La Corte di giustizia dell'Unione europea si è pronunciata sulla corretta interpretazione della direttiva 2000/78/CE che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro.
Questo, nell'ambito di una vicenda processuale avente ad oggetto la domanda di risarcimento del danno derivante dal rifiuto di una società di rinnovare il contratto d’opera da essa concluso con il ricorrente, un lavoratore autonomo, per un motivo fondato sul suo orientamento sessuale.
Con sentenza del 12 gennaio 2023 - causa C-356/21 - i giudici europei hanno in primo luogo evidenziato come, secondo la giurisprudenza della medesima Corte, la direttiva in parola non riguarda solo la tutela dei lavoratori quale parte più debole di un rapporto di lavoro.
Essa, infatti, è finalizzata a eliminare, per ragioni di interesse sociale e pubblico, tutti gli ostacoli fondati su motivi discriminatori all’accesso ai mezzi di sostentamento e alla capacità di contribuire alla società attraverso il lavoro, a prescindere dalla forma giuridica in virtù della quale esso è fornito.
Di conseguenza, la tutela in essa contemplata non può dipendere dalla qualificazione formale di un rapporto di lavoro nel diritto nazionale o dalla scelta operata all’atto dell’assunzione dell’interessato tra l’uno o l’altro tipo di contratto: i termini di tale direttiva devono essere intesi in senso ampio.
Secondo la Corte Ue, ammettere che la libertà contrattuale consenta di rifiutare di contrarre con una persona in base all’orientamento sessuale di quest’ultima equivarrebbe a privare l’articolo 3, paragrafo 1, lettera a), della medesima direttiva del suo effetto utile, in quanto tale disposizione vieta qualsiasi discriminazione fondata su tale motivo, anche per quanto riguarda l’accesso al lavoro autonomo.
In definitiva - si legge nelle conclusioni della sentenza - le norme europee sono di ostacolo a una normativa nazionale "la quale, in virtù della libera scelta della controparte contrattuale, ha l’effetto di escludere dalla tutela contro le discriminazioni, che deve essere offerta in forza di tale direttiva, il rifiuto, fondato sull’orientamento sessuale del soggetto di cui trattasi, di concludere o rinnovare un contratto con quest’ultimo avente ad oggetto la realizzazione di talune prestazioni da parte dello stesso nell’ambito di un’attività autonoma".
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