“Il divieto di discriminazione diretta non è limitato alle sole persone che siano esse stesse disabili. Conseguentemente qualora un datore di lavoro tratti un lavoratore che non sia esso stesso disabile, in modo sfavorevole rispetto al modo in cui è, è stato o sarebbe trattato un altro lavoratore in una situazione analoga, e sia provato che il trattamento sfavorevole di cui tale lavoratore è vittima è causato dalla disabilità del figlio, al quale presta la parte essenziale delle cure di cui quest'ultimo ha bisogno, un siffatto trattamento viola il divieto di discriminazione diretta”.
È il principio di diritto enunciato dalla Corte di Cassazione 13934 del 20 maggio 2024, ultima, in ragione di tempo, di una lunga serie di pronunce giurisprudenziali tese a rimarcare tutele di legge a favore delle persone con disabilità, secondo la nuova terminologia adottata dal decreto legislativo 3 maggio 2024, n. 62, in vigore dal 30 giugno 2024, e limiti ai poteri datoriali tipici.
La decisione citata ridisegna i confini (ampliandoli) della cd. discriminazione diretta, secondo la nozione della stessa fornita dal decreto legislativo 9 luglio 2003, n. 216, di attuazione della direttiva 2000/78/CE, a tutela del principio di parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro.
Principio di parità di trattamento suscettibile di specifica tutela giurisdizionale (anche) con riguardo alle condizioni di assunzione, di lavoro, di licenziamento, di salute e sicurezza, di reintegro professionale o ricollocamento (articolo 4 del decreto legislativo 9 luglio 2003, n. 216).
Ed è proprio il principio di parità di trattamento, da intendersi come assenza di qualsiasi discriminazione diretta o indiretta a causa, fra le altre, delle disabilità delle persone, a fare da imprescindibile cornice generale alle tutele specifiche previste per i trasferimenti riguardanti persone in condizione di disabilità o persone che assistono familiari in condizione di disabilità.
Condizione di disabilità, si legge nella decisione della Suprema Corte n. 13934 del 20 maggio 2024, che nel decreto legislativo 9 luglio 2003, n. 216 “non è declinata (come nella stessa Direttiva cui ha dato attuazione) con precipuo ed esclusivo riferimento alla persona del lavoratore”.
L’articolo 33 della legge quadro 5 febbraio 1992, n. 104, ai commi 5 e 6, riconosce specifiche tutele al lavoratore con disabilità in condizione di gravità e al lavoratore che assiste un familiare con disabilità in condizione di gravità non ricoverato a tempo pieno.
Più nel dettaglio, il legislatore (comma 5) riconosce in capo al lavoratore caregiver il diritto a scegliere, ove possibile, la sede di lavoro più vicina al domicilio della persona da assistere e non può essere trasferito senza il suo consenso ad altra sede.
Il diritto spetta al lavoratore dipendente, pubblico o privato, che assiste un familiare con disabilità in condizione di gravità tra i seguenti:
Il diritto a scegliere, ove possibile, la sede di lavoro più vicina al proprio domicilio e a non essere trasferita in altra sede senza consenso è riconosciuto anche alla persona maggiorenne con disabilità in condizione di gravità (comma 6).
Riepiloghiamo, in una tabella, requisiti e condizioni per il trasferimento del caregiver familiare o del maggiorenne in condizioni di disabilità.
Categoria |
Diritto |
Necessità del consenso al trasferimento |
Riferimento Normativo |
Maggiorenni con disabilità in condizione di gravità |
Scegliere, se possibile, la sede di lavoro più vicina al proprio domicilio |
Sì |
|
Familiari caregivers di persona con disabilità in condizione di gravità non ricoverata a tempo pieno |
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Coniuge o parte dell'unione civile, convivente di fatto, parente o affine entro il 2º grado |
Scegliere, se possibile, la sede di lavoro più vicina al domicilio della persona da assistere |
Sì |
|
Parente o affine entro il 3º grado, se i genitori o il coniuge (o la parte dell'unione civile o il convivente di fatto) della persona con disabilità in condizione di gravità siano deceduti o manchino ovvero abbiano compiuto 65 anni di età o siano affetti da patologie invalidanti |
Scegliere, se possibile, la sede di lavoro più vicina al domicilio della persona da assistere |
Sì |
Con la sentenza n. 29009 del 17 dicembre 2020, la Cassazione ha affermato il principio secondo cui “il diritto del familiare lavoratore, con rapporto di lavoro pubblico o privato, che assista con continuità un parente od un affine entro il terzo grado handicappato, di non essere trasferito senza il suo consenso ad altra sede, non può subire limitazioni in caso di mobilità connessa ad ordinarie esigenze tecnico-produttive dell'azienda ovvero della P.A. (cfr., Cass. SU 9 luglio 2009, n. 16102 e, successivamente, Cass. 12692/2002, Cass. 28320/2013, Cass. 11568/2017, 7981/2018, Cass. 6150/2019)”.
Ed ancora “è stato ritenuto vietato il trasferimento del lavoratore anche quando la disabilità del familiare, che egli assiste, non si configuri come grave, a meno che il datore di lavoro, a fronte della natura e del grado di infermità psico-fisica di quello, provi la sussistenza di esigenze aziendali effettive e urgenti, insuscettibili di essere altrimenti soddisfatte (cfr. Cass. 12.12.2016 n.25379 e Cass. 11.10.2017 n. 23857)”
Con riferimento poi alla decorrenza della tutela riguardante i trasferimenti, la Suprema Corte, con la stessa sentenza 17 dicembre 2020 n. 29009, ha stabilito che il diritto del lavoratore che assiste un familiare con disabilità a non essere trasferito senza il suo consenso, sorge dal momento della presentazione all'INPS della domanda volta ad ottenere il beneficio e non dalla data di emissione del provvedimento di autorizzazione da parte dello stesso Istituto previdenziale.
Sempre la Cassazione, con sentenza del 23 agosto 2019, n. 21670, ha affermato che il divieto di trasferimento del lavoratore che assiste con continuità un familiare disabile convivente riguarda ogni caso di mutamento di luogo di lavoro, anche nell’ambito della medesima unità produttiva..
Infine, secondo la Cassazione (Sezioni Unite 9 luglio 2009 n. 16102), in caso di rifiuto al trasferimento dalla sede di lavoro, lo stesso può essere disposto in presenza di condizioni di incompatibilità ambientale. Il diritto a non essere trasferito, spiega la Corte "mentre non può subire limitazioni in caso di mobilità connessa ad ordinarie esigenze tecnico-produttive dell’ azienda, ovvero della pubblica amministrazione, non è invece attuabile ove sia accertata, in base ad una verifica rigorosa anche in sede giurisdizionale, la incompatibilità della permanenza del lavoratore nella sede di lavoro".
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