Durante il convegno “Il testo unico sulle società a partecipazione pubblica alla luce del d.lgs 16.6.2017 n. 100”, organizzato dai Consigli nazionali dei Commercialisti e degli Avvocati con Anci e Ifel, tenutosi a Roma il 19 ottobre 2017, tra le esternazioni del viceministro dell'Economia, Casero, quella su cosa debbano fare le società pubbliche: “Io sono dell’idea che ciò che può fare il privato, non debba essere fatto dal pubblico”.
E' quanto affermato da Angelo Rughetti, sottosegretario alla Presidenza del Consiglio: “La riforma si poneva tre obiettivi: chiarire il quadro giuridico, riordinare le competenze ed eliminare lo spreco ...(1.300 società partecipate inattive o senza dipendenti e oltre 3 mila con un numero di dipendenti inferiore a quello dei componenti del Consiglio di Amministrazione)...Le nuove regole porteranno alla chiusura di questo tipo di società e, per forza di cose aumenteranno le consulenze affidate ai professionisti”.
L'intervento del vicepresidente del Consiglio nazionale dei commercialisti, Davide Di Russo, autore del “Manuale delle società pubbliche”, esplicita il pensiero dei commercialisti, che scovano nell'art. 3 (le srl in controllo pubblico hanno l’obbligo di dotarsi di un organo di controllo o di un revisore; le spa in controllo pubblico non possono affidare al consiglio sindacale anche le funzioni di revisione legale) “un implicito riconoscimento dell’importanza della funzione di controllo nelle società soggette a dominanza pubblica e quindi dell’imprescindibilità della professionalità del commercialista, che tale delicata funzione è chiamato a svolgere, in veste di sindaco o revisore”.
Con il testo unico delle società a partecipazione pubblica, rileva Di Russo, il legislatore ha:
Tuttavia, ha spiegato il vicepresidente, il testo non risolve tutti i problemi: “L’intento di ridurre il numero di partecipate è destinato a scontrarsi con il nodo del personale, che, assunto senza concorso, non può essere internalizzato insieme ai servizi. Lo sforzo di razionalizzazione quindi dovrà essere accompagnato da forme di incentivo all’esodo, non essendo prospettabile, in alternativa, il ricorso a licenziamenti di massa, che implicherebbero un costo sociale ben superiore ai risparmi di spesa cui la razionalizzazione mira”.
In tema di gestione dei servizi di interesse generale non economici: in tale settore, che non sempre consente il pareggio finanziario, sarebbe più razionale che la p.a. ricorresse al modulo dell’azienda speciale, che è organismo tenuto all’equilibrio economico, lasciando da parte l’opzione societaria, improntata al perseguimento di un utile.
Sulla scelta di assoggettare al fallimento anche le società in house: trattandosi di organismi privi di alterità soggettiva rispetto alla p.a. che su di essi esercita un controllo analogo a quello sui propri servizi, la fallibilità rischia di favorire, ferme le responsabilità degli amministratori, il ribaltamento sui creditori sociali dei debiti che, dietro il labile schermo della società in house, fanno capo all’amministrazione socia.
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