La responsabilità professionale dell’avvocato, la cui obbligazione è di mezzi e non di risultato, presuppone la violazione del dovere di diligenza, per il quale trova applicazione – in luogo del criterio generale della diligenza del buon padre di famiglia – quello della diligenza professionale media esigibile ex art. 1176 comma 2 c.c. da commisurare alla natura dell’attività esercitata. Inoltre, non potendo il professionista garantire l’esito comunque favorevole auspicato dal cliente, il danno derivante da eventuali sue omissioni è in tanto ravvisabile, in quanto, sulla base di criteri necessariamente probabilistici, si accerti che, senza quelle omissioni, il risultato sarebbe stato conseguito, secondo un’indagine istituzionalmente riservata al giudice di merito e non censurabile in sede di legittimità (se adeguatamente motivata ed immune da vizi logici).
Sulla base di questi principi, la Corte di Cassazione, terza sezione civile, ha respinto il ricorso di un cliente, avverso la sentenza che aveva escluso la responsabilità professionale del legale, a suo dire colpevole del proprio dissesto finanziario.
La Corte d’appello aveva difatti già affermato, con accertamento insindacabile e scevro da vizi, la non sussistenza del nesso causale tra la prestazione del legale e l’evento pregiudizievole consistito nell’estensione del fallimento nei confronti del ricorrente. Ed alla luce di tale accertamento, del tutto sfornite di fondamento - affermano gli Ermellini - si appalesano le reiterate doglianze del ricorrente medesimo, che insiste nel censurare la sentenza impugnata per aver citato precedenti di legittimità afferenti una fattispecie diversa (responsabilità del legale in materia giudiziale, mentre nel caso de quo si tratta di materia stragiudiziale).
Ciò non coglie nel segno. Sia nell’attività giudiziale che stragiudiziale, infatti – si legge nella sentenza n. 22849 del 29 settembre 2017 - è sempre onere del cliente dimostrare che il legale non gli abbia procurato o fatto conseguire un risultato prognosticamene utile, quale conseguenza di una prestazione imperita o negligente.
La Cassazione, infine, ha parimenti condannato il cliente per danno all’immagine del professionista ed, in via equitativa, ex art. 96 c.p.c., quale conseguenza della sua condotta processuale temeraria.
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