Mancano i presupposti per salvare l'impresa? Professionista tenuto ad astenersi dall'attività di consulenza se il rischio è di aggravare le perdite. Rigettata la richiesta di ammissione al passivo del credito professionale.
Il professionista chiamato ad assistere un soggetto ormai prossimo alla decozione, se consapevole del difetto dei presupposti per il salvataggio dell'impresa coi mezzi proposti, deve astenersi dall'attività di consulenza, evitando di aggravare le perdite.
Questo alla luce dei principi del sistema fallimentare che vietano atti di aggravamento del dissesto o infruttuosi per la massa dei creditori.
E' sulla base di questo assunto che è stata respinta, dal giudice di merito, l'opposizione al passivo presentata da un professionista, volta ad ottenere il riconoscimento del credito asseritamente dovuto, quale compenso per le prestazioni di opera intellettuale svolte in adempimento di un contratto di consulenza professionale stipulato con una Spa, poi fallita.
La predetta consulenza aveva ad oggetto l'assistenza tecnico-professionale per la prosecuzione della riorganizzazione del gruppo e la creazione di una società holding e di società controllate necessarie per le esigenze di razionalizzazione del gruppo in diversi settori.
La statuizione era stata impugnata dal consulente davanti alla Corte di legittimità, dove era stata censurata, tra gli altri motivi, un'omessa ed erronea motivazione.
Con ordinanza n. 5131 del 16 febbraio 2022, gli Ermellini hanno respinto le doglianze sollevate dal ricorrente, precisando che i giudici di merito, dopo aver preliminarmente rilevato l'esiguità della documentazione posta dalla parte a fondamento della domanda, avevano correttamente fondato il rigetto di quest'ultima sulla dedotta violazione dei doveri di diligenza assunti dal professionista mediante il contratto di opera professionale.
Come giustamente osservato, non vi erano, peraltro, ragioni per escludere che tale violazione potesse consistere nell'aver omesso di informare adeguatamente il cliente, inducendolo a conferire un incarico del tutto inutile ed anzi dannoso per le risorse dell'impresa, costretta ad esborsi inappropriati perché finalizzati ad un obiettivo ipoteticamente favorevole ma nei fatti irraggiungibile.
Un assunto, questo, che trovava riscontro nella giurisprudenza di legittimità, per come ribadito in un recente arresto di Cassazione, relativo, nella specie, ai doveri informativi a carico dell'avvocato ma chiaramente suscettibile - secondo il Supremo Collegio - di regolare le asimmetrie informative in ogni contratto d'opera professionale:
"Nell'adempimento dell'incarico professionale conferitogli, l'obbligo di diligenza da osservare ai sensi del combinato disposto di cui agli artt. 1176, comma 2, e 2236 c.c. impone all'avvocato di assolvere, sia all'atto del conferimento del mandato che nel corso dello svolgimento del rapporto, (anche) ai doveri di sollecitazione, dissuasione ed informazione del cliente, essendo tenuto a rappresentare a quest'ultimo tutte le questioni di fatto e di diritto, comunque insorgenti, ostative al raggiungimento del risultato, o comunque produttive del rischio di effetti dannosi; di richiedergli gli elementi necessari o utili in suo possesso; di sconsigliarlo dall'intraprendere o proseguire un giudizio dall'esito probabilmente sfavorevole".
A questo fine, grava sul professionista l'onere di provare la condotta mantenuta, risultando insufficiente, al riguardo, il rilascio da parte del cliente delle procure necessarie all'esercizio dello ius postulandi, "attesa la relativa inidoneità ad obiettivamente ed univocamente deporre per la compiuta informazione in ordine a tutte le circostanze indispensabili per l'assunzione da parte del cliente di una decisione pienamente consapevole sull'opportunità o meno d'iniziare un processo o intervenire in giudizio".
La decisione impugnata, nella specie, aveva fatto buon governo dei predetti principi, sicché il ricorso del professionista andava rigettato.
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