E' da considerare nullo, per carenza di motivazione, l’avviso di accertamento a fini IVA, spiccato dall’Agenzia delle Entrate nei confronti di un professionista, che abbia trovato fondamento solo sui versamenti in banca del professionista (risultanze di indagini bancarie), se è dimostrato che l’Amministrazione finanziaria non abbia tenuto adeguatamente conto, come impone la legge, dei presupposti di fatto e di diritto che hanno determinato la rettifica del reddito dichiarato.
Con la sentenza n. 20251 del 9 ottobre 2015, infatti, la Suprema Corte respinge il ricorso dell'Agenzia delle Entrate, che aveva accertato un maggiore imponibile IVA a carico di un avvocato.
La Corte accoglie le motivazioni della Ctr Lazio che ha rilevato il vizio di motivazione lamentato dal contribuente, dichiarando così nulla la rettifica operata dall’Ufficio finanziario.
Nelle loro motivazioni, i Supremi giudici hanno sottolineato in particolar modo gli obblighi di motivazione degli atti impositivi, ricordando che gli artt. 7, comma 1, della Legge 212/2000 e 42, comma 2, del D.P.R. 600/1973, obbligano l’Amministrazione finanziaria a indicare i presupposti di fatto e di diritto che hanno determinato la decisione dell'Amministrazione stessa.
Pertanto, conclude la Corte: “da ciò si evince che la motivazione attiene alla sostanza e non alla forma dell'atto tributario e, pertanto, non è riconducibile ad una mera provocatio ad opponendum, ma integra un elemento essenziale dell'atto suddetto, sulla cui base va definito il thema decidendum e probandum dell'eventuale successivo giudizio di impugnazione. In particolare deve consentire il controllo interno e giurisdizionale dell’atto, al fine di valutare la correttezza dell’operato dell’amministrazione”.
Ne consegue che l'originaria inidoneità motivazionale dell'atto comporta l'invalidità dello stesso.
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