Permanente infermità al lavoro, limitato l’obbligo di repêchage

Pubblicato il 29 ottobre 2019

In caso di permanente infermità al lavoro, ossia quando il dipendente diventi inidoneo alla mansione per la quale era stato originariamente assunto, il cd. “obbligo di repêchage” non impone al datore di lavoro di modificare l’assetto organizzativo dell’azienda al fine di ricollocare il lavoratore. Quindi, risulta assolutamente legittimo il licenziamento del dipendente per sopravvenuta inidoneità fisica al lavoro, laddove lo stesso non possa essere ricollocato in altre mansioni.

Così hanno deciso i giudici della Suprema Corte, con la sentenza n. 27502 del 28 ottobre 2019.

Permanente infermità al lavoro, ambito normativo

L’ipotesi di sopravvenuta inidoneità fisica (o anche psichica) al lavoro, rientra nella fattispecie dei casi di impossibilità sopravvenuta della prestazione. In base all’art. 1464 cod. civ. “quando la prestazione di una parte è divenuta solo parzialmente impossibile, l'altra parte ha diritto a una corrispondente riduzione della prestazione da essa dovuta, e può anche recedere dal contratto qualora non abbia un interesse apprezzabile all'adempimento parziale”.

Dal dettato normativo deriva che, il datore di lavoro può legittimamente licenziare il lavoratore qualora lo stesso, a causa della prestazione lavorativa ridotta, sia divenuto inutilizzabile.

Tuttavia, affinché il datore di lavoro possa legittimamente privarsi del dipendente, divenuto improvvisamente inidoneo alla mansione, ha l’obbligo di verificare l’assegnazione a mansione diverse e compatibili con il suo stato di salute. In altri termini, la sopravvenuta e permanente infermità del lavoratore non costituisce giustificato motivo oggettivo di licenziamento poiché, in funzione del principio di repêchage, il datore di lavoro, ancor prima di interrompere definitivamente il rapporto di lavoro, deve verificare l’opportunità di adibire il dipendente ad altre mansioni all’interno dell’organizzazione aziendale, anche di livello inferiore.

Permanente infermità al lavoro, il parere della Cassazione

Nel caso in concreto, il lavoratore lamentava che il datore di lavoro non avrebbe modificato l'assetto organizzativo per consentire di utilizzare, anche in mansioni inferiori, il dipendente divenuto fisicamente inidoneo alla mansione originaria.

I giudici della Suprema Corte respingono il ricorso del lavoratore e confermano la decisione dei giudici di merito. Secondo gli ermellini, infatti, l’obbligo imposto in capo al datore di lavoro non può essere di portata tale da imporgli di modificare l’assetto organizzativo della propria impresa. L’assetto organizzativo aziendale, tra l’altro, fa parte del concetto di “libertà d’impresa”, quindi insindacabile da chiunque.

In definitiva, affermano i giudici di legittimità, se da un lato vi è l’interesse connesso alla conservazione del posto di lavoro, qualora in azienda non vi siano posizioni lavorative, anche corrispondenti a mansioni inferiori, compatibili con le residue capacità del dipendente, dall’altro lato non può essere domandato al datore di lavoro di alterare l’organizzazione produttiva al fine di reimpiegare il lavoratore divenuto inidoneo. Come ultima ipotesi, conclude la Corte di Cassazione, in assenza di altre posizioni reperibili nell’ambito dell'organizzazione datoriale è previsto “l’avviamento presso altra azienda in attività compatibili con le residue capacità del lavoratore”.

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