La condotta di chi, al fine di conseguire un vantaggio fiscale, realizzi esclusivamente negozi simulati o comunque affetti da altre nullità dal punto di vista civilistico, non può considerarsi scriminata in forza di quanto disposto dal comma 13 dell’articolo 10-bis della Legge n. 212/2000 che statuisce “Le operazioni abusive non danno luogo a fatti punibili ai sensi delle leggi penali tributarie”.
In linea di principio, infatti, è da ritenere elusiva, e quindi penalmente irrilevante in considerazione della scriminante prevista dalla nuova norma sull’abuso del diritto, un’operazione che, pur principalmente finalizzata al conseguimento di un vantaggio tributario, sia caratterizzata da una effettiva e reale funzione economico sociale meritevole di tutela per l’ordinamento.
Viceversa, dinnanzi ad un’operazione meramente simulata, che ricorrere qualora la medesima costituisca un mero “simulacro” privo di qualsiasi effettivo contenuto, ci si troverà al cospetto non tanto di un’ipotesi di abuso di un pur sussistente e valido negozio giuridico, quanto piuttosto di una vera e propria macchinazione priva di sostanza economica il cui unico scopo, anche attraverso il sapiente utilizzo di strumenti negoziali tra loro collegati, sarebbe quello di raggiungere un indebito vantaggio fiscale.
In tale ultimo contesto, la fattispecie esulerebbe dalla ipotesi penalmente irrilevante dell’abuso del diritto che, si ripete, postula comunque l’utilizzo di strumenti che, anche se soggettivamente finalizzati ad effetti diversi da quelli tipici dei negozi realizzati, sono giuridicamente validi ed hanno una loro meritevole causa giuridica ulteriore rispetto alla mera elusione fiscale.
Sono questi gli assunti che si leggono nel testo della sentenza n. 41755, depositata il 5 ottobre 2016 dalla Terza sezione penale della Corte di cassazione.
La pronuncia prende la mosse da una vicenda in cui era stato chiesto il sequestro preventivo dei beni di un imprenditore, sino al valore che il Pm aveva ritenuto corrispondente al profitto del reato che l’imputato aveva asseritamente conseguito omettendo di dichiarare, in qualità di azionista di riferimento e amministratore di fatto di due società, la plusvalenza realizzata tramite la vendita ad altre società, tra di loro collegate, di alcuni beni.
Nel dettaglio, l'accusa sollevata era di aver provveduto a cedere questi ultimi beni da una società all’altra, tutte controllate dall'amministratore, con un meccanismo che avrebbe consentito, a causa dell’esistenza di cospicue perdite di bilancio in una delle imprese, di neutralizzare l’imposta che avrebbe, viceversa, gravato se fosse stata dichiarata integralmente la plusvalenza derivante dall’avvenuta cessione dei beni.
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