La Corte di Giustizia Ue, nella sentenza pronunciata il 20 marzo 2018, relativa alla causa pregiudiziale C-524/15, chiarisce i limiti del principio di diritto del "ne bis in idem", applicato al caso di omesso versamento Iva.
La pronuncia dei giudici comunitari, attesa da molto tempo, chiarisce le questioni sollevate dal Tribunale di Bergamo sulla legittimità della norma nazionale circa la possibilità di punire l’omesso versamento Iva, al superamento della soglia dei 250mila euro, anche con una sanzione penale che va ad aggiungersi a quella amministrativa pecuniaria. I giudici italiani chiedevano se tale legge nazionale rispetti la Carta fondamentale dei diritti dell'Ue e la Convenzione europea dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, che vietano di sanzionare nuovamente la persona già condannata per gli stessi fatti (principio del "ne bis in idem").
La questione analizzata dalla Corte Ue vede coinvolti l’articolo 13 del Dlgs n. 471/97, che prevede una sanzione amministrativa del 30% di ogni importo non versato, e l’articolo 10 bis, comma 1, del Dlgs n. 74/2000, che prevede che è punito con la reclusione da sei mesi a due anni chiunque non versa entro il termine previsto per la presentazione della dichiarazione annuale di sostituto di imposta ritenute dovute sulla base della stessa dichiarazione o risultanti dalla certificazione rilasciata ai sostituiti, per un ammontare superiore a 250mila euro per ciascun periodo d'imposta.
Secondo la Corte di Giustizia Ue, tali sanzioni perseguono l'interesse generale di assicurare la riscossione integrale dell'Iva. Si tratta, però, di un interesse che, sebbene molto importante, di per sé non è sufficiente a consentire la cumulabilità delle sanzioni.
La Corte, infatti, ritiene che il cumulo costituisce una limitazione al diritto fondamentale garantito all’articolo 50 della Carta. Tuttavia, una tale limitazione può essere giustificata, ai sensi dell'art. 52 della stessa Carta, se vengono rispettate alcune condizioni previste dalla legge.
La sentenza del 20 marzo 2018, pertanto, conclude asserendo che:
“L’articolo 50 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea deve essere interpretato nel senso che esso non osta ad una normativa nazionale in forza della quale è possibile avviare procedimenti penali a carico di una persona per omesso versamento dell’imposta sul valore aggiunto dovuta entro i termini di legge, qualora a tale persona sia già stata inflitta, per i medesimi fatti, una sanzione amministrativa definitiva di natura penale ai sensi del citato articolo 50”, purché tale normativa sia volta al soddisfacimento di alcune condizioni:
sia finalizzata ad un obiettivo di interesse generale tale da giustificare un simile cumulo di procedimenti e di sanzioni, fermo restando che detti procedimenti e dette sanzioni devono avere scopi complementari;
contenga norme che garantiscano una coordinazione che limiti a quanto strettamente necessario l’onere supplementare che risulta, per gli interessati, da un cumulo di procedimenti;
preveda norme che consentano di garantire che la severità del complesso delle sanzioni imposte sia limitata a quanto strettamente necessario rispetto alla gravità del reato di cui si tratti.
Al verificarsi di tali condizioni è possibile il doppio procedimento amministrativo/penale.
Infine - secondo la Corte - spetta al giudice nazionale accertare, tenuto conto del complesso delle circostanze del procedimento principale, che per l’interessato l’onere risultante concretamente dall’applicazione del cumulo sanzionatorio non sia eccessivo rispetto alla gravità del reato commesso, spettando al giudice europeo solo di definire i parametri astratti entro cui la norma nazionale può essere conforme al diritto europeo.
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