Omesso riascolto dei testi. Italia condannata per processo non equo

Pubblicato il 30 giugno 2017

La Corte europea dei diritti dell’uomo ha condannato l’Italia per aver posto in essere una violazione dell’articolo 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, che assicura il diritto a un processo equo, nell’ambito di una vicenda in cui un cittadino italiano aveva fatto ricorso ai giudici di Strasburgo lamentando che la procedura penale avviata nei suoi confronti, e che aveva portato alla sua condanna da parte della Corte di appello italiana, non era stata, appunto, equa.

La vicenda in esame

Lo stesso lamentava, in particolare, che la Corte d’appello, investita del giudizio di gravame dopo che il medesimo era stato assolto in primo grado, non avesse ordinato una nuova audizione dei testimoni già ascoltati davanti al giudice di prime cure.

Nel dettaglio, il ricorrente era stato assolto nel giudizio di prima istanza poiché il tribunale aveva considerato che le dichiarazione di due testimoni a suo carico fossero imprecise, illogiche e incoerenti.

Sulla base di queste stesse testimonianze, tuttavia, l’imputato era stato poi condannato in sede di gravame, senza che, ivi, si fosse proceduto ad una nuova audizione dei testi.

I giudici di appello, ossia, per determinare la colpevolezza dell’uomo, avevano esaminato le dichiarazioni dei due, per come risultanti nei processi verbali presenti nel fascicolo d’ufficio di primo grado.

Decisione della Corte

Ma secondo i giudici di Strasburgo, l’omissione posta in essere dalla Corte d’appello e consistente nel non aver risentito nuovamente i due testi in questione e/o altri testimoni prima di invalidare il verdetto di assoluzione di cui l’imputato aveva beneficiato in prima istanza, aveva determinato una lesione all’equità del processo.

A questo riguardo, la Corte Edu – ricorso n. 63446/13, sentenza del 29 giugno 2017 – ha ricordato che chi ha la responsabilità di decidere della colpevolezza o dell’innocenza di un accusato deve, in primo luogo, sentire i testimoni di persona, e valutarne la relativa credibilità.

Riconosciuta, dunque, dalla Corte, la violazione dell’articolo 6 della Convenzione, l’Italia è stata condannata a versare al ricorrente 6.500 euro per danno morale, oltre agli accessori dovuti.

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