Nel corso dell’annuale appuntamento con la stampa specializzata di fine gennaio, numerosi sono stati i chiarimenti che gli esperti dell’Amministrazione Finanziaria e anche la Guardia di Finanza hanno fornito con riferimento alle novità fiscali del momento.
Gli argomenti trattati sono stati vari e hanno riguardato la c.d. “pace fiscale”, la quale come noto prevede diverse misure agevolate per rottamare le cartelle; ad esempio è stato chiarito dall’Agenzia delle Entrate che, ai fini della definizione delle liti pendenti, per poter beneficiare del pagamento del 90% del valore della controversia, è necessario verificare la data di costituzione in giudizio del ricorrente, la quale deve essere precedente all’entrata in vigore del D.L. 119/2018 (24 ottobre 2018).
Molti quesiti sono stati dedicati alla fatturazione elettronica e al regime forfettario. Con riferimento alla fatturazione elettronica è stato ricordato che, dal 1° gennaio 2019, la cessione di carburante deve essere sempre documentata dalla fattura elettronica, anche se il pagamento avviene con strumenti tracciabili, rendendosi sempre necessario conservare le ricevute di pagamento.
Per le fatture elettroniche non è richiesta l’indicazione della targa del veicolo ai fini Iva, tuttavia, ove utile ai fini di altre imposte, la targa potrà essere comunque indicata nel campo “Altri Dati Gestionali”. Anche per gli acquisti di carburante effettuati nel periodo 1° luglio – 31 dicembre 2018, se la cessione è avvenuta senza emissione della fattura con indicazione della targa e non è stata compilata la scheda carburante, il costo è comunque deducibile e l’Iva è detraibile se il pagamento è avvenuto con gli strumenti tracciabili previsti. Un chiarimento importante riguarda l’emissione della fattura accompagnatoria la quale può essere soltanto elettronica, ma il contribuente può ricorrere alla fatturazione differita e far accompagnare, dunque, i beni dal documento di trasporto o da altro documento idoneo. Analizziamo di seguito alcune risposte fornite dagli esperti del fisco.
Sulla fatturazione elettronica tra le domante poste, è stato chiarito che la moratoria per la tardiva emissione del documento elettronico non si estende alle sanzioni per gli omessi versamenti da errata liquidazione Iva. Il chiarimento ha un impatto immediato sulle procedure operative di imprese e professionisti che devono attivarsi per evitare le sanzioni.
Alla luce della risposta fornita dall’Agenzia delle Entrate, sarà bene non fare troppo affidamento alla moratoria, e bisognerà cercare di evitare di sforare il termine della liquidazione Iva relativa alla data di effettuazione dell’operazione.
La moratoria, prevista dal D.L. 119/2018, prevede l’esclusione delle sanzioni di cui all’articolo 1, comma 6, terzo periodo del D.lgs 127/2015, nel caso in cui la fattura elettronica venga emessa entro il termine di liquidazione relativa al momento di effettuazione dell’operazione, e prevede inoltre, la riduzione al 20% delle medesime sanzioni nel caso in cui la fattura elettronica venga emessa in ritardo, ma entro il termine della liquidazione successiva.
La domanda posta riguardava le possibili sanzioni relative ad una emissione della fattura in una data tale da far partecipare l’Iva entro la seconda liquidazione successiva a quella di effettuazione dell’operazione, con un conseguente omesso versamento dell’Iva relativa all’operazione.
L’Agenzia, richiamando il D.L. 119/2018, ha risposto che l’unica sanzione riducibile al 20% è quella di cui all’articolo 6 del D.lgs 471/97, ovvero relativa al ritardo nell’emissione della fattura elettronica, non comprendendo quella relativa alla irregolare liquidazione dell’imposta o anche al relativo omesso versamento.
Per riassumere, il contribuente che emette la fattura entro la seconda liquidazione successiva all’effettuazione dell’operazione ed effettua delle irregolarità nel versare l’importo dovuto nella prima liquidazione si vedrà applicare:
NB! – E’ chiaro che (pur in presenza di una moratoria) bisogna fare di tutto per essere pronti ad emettere la fattura elettronica entro la liquidazione relativa all’effettuazione dell’operazione, per essere escluso da qualsiasi sanzione. |
E’ comunque possibile fare ricorso al ravvedimento operoso, sanando la sanzione per il ritardo di emissione della fattura elettronica e la sanzione per l’omesso versamento.
Un altro chiarimento ha riguardato l’emissione delle fatture estere, ovvero emesse nei confronti dei soggetti non residenti o non stabiliti, anche se identificati in Italia. Per queste è possibile provvedere con l’invio delle stesse allo SDI con l’utilizzo del codice convenzionale “XXXXXXX”.
L’emittente dovrà poi recapitare la fattura (anche in modalità analogica) al cliente. Viene precisato che in questo caso l’originale da gestire e da conservare in elettronico è solo quello inviato allo SDI e non anche la fattura analogica inviata al cliente.
Il tema della fatturazione elettronica è, come ovvio, quello di maggior attualità, in quanto riguarda la quotidianità degli operatori. Sul tema risultano interessanti anche i chiarimenti su due particolari argomenti ovvero:
Sul primo tema le compagnie petrolifere tendono a privilegiare l’utilizzo di carte elettroniche, di regola riferibili a un singolo veicolo.
Al momento della richiesta di questo titolo, occorre indicare la targa del mezzo per il quale sarà eseguito il rifornimento, targa che potrà quindi comparire sulla fattura elettronica emessa a fine mese.
Un quesito riguardava proprio l’indicazione della targa nella fattura, e la risposta ha ribadito la facoltatività di tale indicazione, ferma restando la possibilità di inserire questo dato nel campo degli “Altri Dati Gestionali”.
La riferibilità al contribuente, e quindi la rilevanza in tema di deducibilità del costo e di detraibilità dell’Iva, è conseguita con l’obbligo di utilizzare un mezzo di pagamento tracciabile.
Un altro quesito fa riferimento al rifornimento effettuato fuori dall’orario di servizio del distributore, nel caso in cui la macchina del self-service non sia in grado di leggere il Qr-code di chi sta effettuando l’acquisto.
In questo caso la rilevanza del costo, sia per l’Iva che per i redditi, è riconosciuta solo in presenza di fattura elettronica, anche nel caso in cui il pagamento sia avvenuto con uno strumento tracciabile.
Il cessionario sarà tenuto a conservare le ricevute del pagamento, tuttavia l’operatività dipende dalle procedure di ciascun distributore del carburante (ad esempio si può fotografare lo scontrino e inviarlo tramite App).
Un altro argomento che ha evidenziato notevoli perplessità riguarda le fatture in reverse charge.
Uno dei quesiti rivolti all’Agenzia delle Entrate si riferiva ad un chiarimento relativo alla Faq 36, deve viene affermato che per gli acquisti interni per i quali l’operatore Iva italiano riceve una fattura elettronica riportante la natura “N6”, in quanto l’operazione è effettuata in regime di inversione contabile, ai sensi dell’articolo 17 del D.P.R. n. 633/72. L’adempimento contabile previsto dalle disposizioni normative in vigore prevede una “integrazione” della fattura ricevuta con l’aliquota e l’imposta dovuta e la conseguente registrazione della stessa ai sensi degli articoli 23 e 25 del d.P.R. n. 633/72.
Con la fatturazione in reverse charge si deve indicare nella tipologia dell’Iva la modalità N6 (inversione contabile), e obbliga chi riceve il file di calcolare l’Iva a debito, esercitando contemporaneamente il diritto di detrazione.
La circolare 13/E del 2 luglio 2018 non ha però formalizzato il fatto che il destinatario della fattura (se desidera conservare elettronicamente l’integrazione da lui fatta) potrebbe caricare nello SDI una “autofattura”, ma con il codice Td1 e non Td20, che si riferisce solo alle autofatture-denuncia, per mancata emissione da parte del fornitore.
L’Agenzia ha confermato questa linea interpretativa, ma non ha preso posizione sulla duplicazione dell’operazione che si verrebbe a creare.
Ogni documento caricato nello SdI ha infatti la funzione di memorizzare simultaneamente la vendita e l’acquisto.
E se il cliente carica un altro documento, che come sopra visto ha la stessa natura di quello immesso dal fornitore, l’elaborazione dei dati da parte del sistema rileverebbe che ci sono state due vendite e, conseguentemente, due acquisti.
Si ha la cessazione dal regime forfettario a partire dall’anno successivo a quello in cui viene meno il requisito del limite di ricavi e compensi fissato nella misura di 65mila euro, indipendentemente dall’ammontare dei ricavi che vengono realizzati nell’anno.
Un professionista che nel 2018 ha realizzato compensi di ammontare non superiore a 65mila euro, nel 2019 può applicare il regime forfettario anche se i proventi risulteranno molti di più. Si applicherà il regime ordinario dall’anno 2020.
L’Agenzia delle Entrate ha confermato questo principio. Il dato normativo non lascia dubbi che, nel periodo di imposta di applicazione del regime forfettario, non ci sono limiti di ricavi e compensi e sull’intero ammontare del reddito si applica l’imposta sostituiva del 15%.
L’Agenzia ha anche precisato che un contribuente in regime di contabilità ordinaria nell’anno 2017 e 2018, qualora abbia realizzato nel 2018 un ammontare di ricavi non superiore a 65mila euro può applicare il regime forfettario nel 2019.
Il vincolo triennale derivante dalla opzione per il regime ordinario viene meno in quanto siamo in presenza di modifica del sistema in conseguenza di nuove disposizioni normative (articolo 1 del DPR 442/1997).
Quindi il regime forfettario può essere applicato dalle persone fisiche che svolgono una attività di impresa o professionale e che nel 2018 hanno realizzato un ammontare di ricavi o compensi di ammontare non superiore a 65mila euro, indipendentemente dal regime applicato nell’anno precedente.
Anche nel caso di applicazione del regime dei minimi (D.L. 98/2011) il contribuente può entrare nel regime forfettario e può applicare l’imposta sostitutiva del 5% sul reddito determinato forfettariamente (comma 87, legge 190/2014) entro il limite massimo di cinque anni a partire dall’anno di inizio della attività.
Le Entrate hanno confermato anche la libertà di scegliere il regime forfettario per coloro che nel 2018 hanno applicato il regime semplificato nel primo anno di attività (articolo 18 del DPR 600/1973). Questi sono due regimi naturali che pertanto possono consentire la fuoriuscita senza vincoli temporali.
Una causa ostativa al regime forfettario è il possesso di una partecipazione in una società a responsabilità limitata alla condizione che la società sia controllata direttamente o indirettamente dalla persona fisica che intende adottare questo regime e che la società svolga una attività riconducibile a quella del socio persona fisica.
L’Agenzia ha risposto negativamente alla possibilità di rimuovere la causa ostativa mediante la cessione della partecipazione durante il 2019 per poter applicare in tale anno il regime forfettario. Nessuna preclusione esiste, invece, nel caso in cui il contribuente, nell’anno precedente a quello di applicazione del regime, provveda a rimuovere le cause ostative. Stesso orientamento in presenza di una partecipazione posseduta da molto tempo e quindi in modo incolpevole e non preordinato alla attività in regime forfettario, tenuto conto che la relazione governativa di accompagnamento giustifica questa disposizione al fine di evitare la polverizzazione delle attività mediante frammentazione volontaria.
Gli avvisi bonari non rientrano tra gli atti impositivi definibili, e nemmeno le conseguenti cartelle di pagamento, che derivano da controlli automatizzati (articolo 36-bis del DPR 600/73 e 54-bis del DPR 633/72) relativi ad imposte e ritenute indicate dai contribuenti e dai sostituti d’imposta nelle dichiarazioni presentate, ma non versate.
Una novità introdotta in conversione del D.L. 119/2018 consente di pagare il 90% delle imposte in caso di ricorso pendente iscritto nel primo grado. L’Agenzia ha chiarito che è definibile la lite con il 90% se al 24 ottobre 2018, il ricorso è già depositato o trasmesso alla segreteria della CTP.
Per la determinazione degli importi dovuti, occorre far riferimento dunque alla situazione processuale esistente alla data del 24 ottobre 2018, senza prendere in considerazione eventuali pronunce emesse in seguito a tale data.
NB! - Al momento di presentazione della domanda, il processo deve essere ancora pendente, ossia non deve essere stata pronunciata una sentenza definitiva. |
Nella rottamazione-ter, la mera pendenza del termine per presentare l’istanza di definizione non comporta una moratoria nelle azioni di recupero dell’agente della riscossione. L’Agenzia della riscossione ha il potere di iscrivere fermi amministrativi e ipoteche e avviare azioni esecutive.
Dopo aver presentato la domanda, non possono essere iscritte nuove misure cautelari (restano quelle già iscritte) e non possono essere avviate nuove azioni esecutive.
Dopo l’istanza, anche le procedure esecutive in corso sono sospese, tranne quelle per le quali si sia tenuto il primo incanto con esito positivo. Non viene precisato nulla sul pignoramento presso terzi.
Nelle precedenti edizioni della definizione agevolata, ere disposto che ove si fosse già verificata l’assegnazione del credito pignorato, la domanda di definizione non impediva la prosecuzione del pignoramento presso terzi.
Il riferimento è diretto alla procedura relativa agli articoli 72-bis e seguenti del DPR 602/1973, che consente all’agente della riscossione di riscuotere direttamente le somme dovute presso il terzo debitore del soggetto iscritto a ruolo (si pensi ad esempio al pignoramento dello stipendio).
In passato era stato ulteriormente precisato che la procedura esecutiva proseguiva anche sui crediti a maturazione futura: era il caso del pignoramento delle quote stipendiali future, qualora la retribuzione in corso non fosse capiente rispetto all’entità complessiva del debito.
Dopo la presentazione della domanda, l’importo dovuto si consolida nell’ammontare derivante dalla definizione agevolata. Ne conseguiva che, laddove l’importo incassato fosse eccedente quello “condonato”, la differenza avrebbe dovuto essere restituita al debitore.
Nella rottamazione-ter, il pignoramento presso terzi non è menzionato e di conseguenza si applicano le regole ordinarie, viene confermata questa conclusione, rilevando che dopo la trasmissione dell’istanza anche il pignoramento presso terzi non può proseguire.
Relativamente agli effetti operativi, la norma di riferimento stabilisce che il pignoramento viene sospeso e poi successivamente revocato, dopo il pagamento della prima rata, in scadenza a luglio 2019.
La sospensione degli effetti del pignoramento dovrebbe però comportare il ripristino della piena disponibilità delle somme aggredite perché se cosi non fosse la sospensione non sarebbe di alcuna utilità, poiché il debitore subirebbe comunque gli effetti del vincolo sulle somme.
Se non viene versata la prima rata di luglio, l’agente della riscossione non dovrebbe procedere a rinotificare l’atto di pignoramento ma si limiterà a comunicherà al terzo la ripresa delle azioni esecutive.
Tra i quesiti posti sulla disciplina dell’Iperammortamento, se ne segnalano in particolare due relativi alla disciplina antielusiva introdotta dal decreto dignità (D.L. 87/2018).
La norma stabilisce che per gli investimenti in beni iperammortizzabili effettuati dopo il 14 luglio 2018, la deduzione deve essere riversata, mediante una variazione in aumento nella dichiarazione dei redditi, nel caso in cui il bene venga ceduto a titolo oneroso o delocalizzato all’estero nel periodo di fruizione della agevolazione (cioè di durata dell’ammortamento fiscale).
Per evitare il recupero, l’impresa deve acquisire, entro la fine dell’esercizio di cessione, un nuovo bene con caratteristiche non inferiori a quelle “Industria 4.0”, nel qual caso può anche continuare a dedurre le quote maggiorate, nel limite del minore tra il costo originario e quello del nuovo bene acquistato.
Un primo interrogativo posto dagli operatori riguarda l’esatta individuazione degli eventi che fanno scattare il recupero.
In particolare, se le cessioni a titolo oneroso indicate nella disposizione sono limitate a quelle verso acquirenti non residenti o se invece siano rilevanti anche quelle effettuate in Italia.
L’Agenzia ha affermato che la cessione a titolo oneroso e la delocalizzazione all’estero sono fattispecie da valutare distintamente.
Comunque ogni cessione a titolo oneroso di beni agevolati, anche verso imprese italiane, fa scattare il recupero dell’iperammortamento già fruito.
Un secondo quesito ha riguardato le ricadute delle cessioni di beni iperammortizzabili che avvengono, non già singolarmente, bensì nell’ambito di operazioni straordinarie che comportano un trasferimento dell’azienda (o del ramo di azienda) in cui detti beni sono inseriti.
Non sussistendo alcun dubbio per operazioni di fusione o di scissione (per la loro natura successoria), l’interrogativo ha riguardato le cessioni e i conferimenti di azienda.
L’Agenzia ha affermato che, a prescindere dalla natura realizzativa o neutrale dell’operazione, il trasferimento del bene unitamente all’azienda non fa decadere l’impresa cedente dal beneficio.
La cessionaria (o la conferitaria) del ramo di azienda potrà subentrare nel procedimento di deduzione delle quote di iperammortamento, secondo le regole, i costi e la dinamica temporale originariamente determinati in capo al cedente.
Il cedente dovrà comunicare al cessionario la presenza di beni iperammortizzabili in corso di ammortamento, fornendogli adeguata documentazione, compresi gli importi originari, le quote già stanziate e quelle residue.
Non è stato invece affrontato il recupero dell’iperammortamento in caso di investimenti effettuati mediante locazione finanziaria.
Molti quesiti hanno riguardato la possibilità di scegliere, per gli investimenti del 2019, tra l’una e l’altra agevolazione.
Il nuovo iperammortamento a scaglioni risulta più vantaggioso di quello precedente solo quando gli investimenti realizzati nel 2019 (nonché nella coda temporale del 2020, prevista per ordini e acconti del 20% entro la fine del 2019) siano complessivamente inferiori a 3,5 milioni di euro.
Per costi al di sotto di questa soglia, infatti, l’importo che si ottiene cumulando il 170% del primo scaglione (primi 2,5 milioni) e il 100% del secondo è superiore al 150% complessivo.
Le due agevolazioni (quella prevista dal comma 30 della Legge 205/2017 e quella nuova, strutturata a scaglioni), anche se possono entrambe interessare costi per investimenti 4.0 sostenuti nel 2019, sono però autonome e si applicano in base alle precise condizioni di legge, senza possibilità di scelta.
Chi ha confermato l’ordine al fornitore e pagato l’acconto del 20% entro la fine del 2018 utilizza obbligatoriamente, per i costi del 2019, la maggiorazione del 150% non intaccando gli scaglioni.
E’ stato chiesto alle Entrate cosa accade se, dopo aver fatto un ordine e un acconto alla fine del 2018, il costo dell’investimento 4.0 realizzato entro il 31 dicembre 2019 risulta superiore, rendendo apparentemente incapiente l’acconto.
Si ipotizzi, ad esempio, un ordine per un macchinario iperammortizzabile effettuato a dicembre 2018 per un milione di euro, con pagamento dell’acconto di 200 mila euro, che viene realizzato nel 2019 con un costo a consuntivo (a seguito di revisione o migliorie) di 1,1 milioni.
L’Agenzia ha stabilito che, in questo caso, il costo della macchina andrà ripartito tra quello sotto l’ombrello del 150% e quello che sfrutta l’iperammortamento a scaglioni.
Innanzitutto, è confermato che l’importo contrattualizzato (un milione) usufruisce comunque della maggiorazione del 150% e non può entrare in quella nuova.
Al costo eccedente (100 mila) si applicherà invece la nuova maggiorazione a scaglioni, cumulando l’importo con gli altri eventuali investimenti effettuati nel 2019 (o nella coda del 2020).
Tra le novità introdotte dal decreto fiscale 119/2018 in tema di processo tributario telematico, vi è il potere di certificazione della conformità.
L’attestazione garantisce che la copia informatica (anche per immagine) di un atto processuale di parte, di un provvedimento del giudice o di un documento sia “identica” al suo originale o alla sua copia conforme su supporto analogico.
Il nuovo articolo 25-bis del processo tributario (D.lgs 546/1992) prevede che l’attestazione possa essere eseguita dal difensore e dal dipendente di cui si avvalgono l’ente impositore, l’agente della riscossione e i soggetti iscritti nell’Albo per la riscossione degli enti locali.
La copia informatica o cartacea munita dell’attestazione di conformità equivale all’originale o alla copia conforme dell’atto o del provvedimento detenuto o presente nel fascicolo informatico.
Nel compimento dell’attestazione, per espressa previsione normativa, i difensori e i dipendenti assumono a ogni effetto la veste di pubblici ufficiali.
Da una prima lettura della norma sembrava che tale possibilità di attestazione fosse riservata ai difensori della parte pubblica.
E’ stato precisato che il nuovo articolo 25-bis è riferito ai difensori di tutte le parti, e quindi anche del contribuente, i quali potranno così estrarre copie e attestarne la conformità della copia.
È stato altresì precisato che le attestazioni sono in esenzione del pagamento di eventuali diritti.
Un’altra questione controversa riguardava l’obbligo di restituzione da parte dell’ente impositore della metà del contributo unificato nelle ipotesi in cui il giudice tributario dispone la compensazione delle spese di lite. In questo caso viene precisato che il contributo unificato per il processo tributario è regolato da una specifica disciplina all’interno della quale non possono trovare applicazione, neanche in via analogica, le disposizioni previste per i processi civile e amministrativo.
Per il rito tributario, la Corte di cassazione ha individuato la natura di obbligazione ex lege del contributo unificato tributario gravante sulla sola parte soccombente, soltanto nel caso di espressa sua condanna alle spese del giudizio nelle statuizioni della sentenza. Per ciò consegue che la restituzione del contributo unificato a carico del contribuente può avvenire solo in ipotesi di condanna alle spese di giudizio dell’ente impositore. In caso di compensazione, tali spese rimangono interamente a carico della parte privata, compreso il contributo unificato.
Importanti chiarimenti e precisazioni sono sati forniti anche sul tema delle fatturazioni inesistenti, da parte della Guardia di Finanza. La frode fiscale costituisce un pericoloso sistema evasivo che comporta l’applicazione di specifiche sanzioni, ex articolo 2 D.Lgs. 74/2000.
La norma punisce con la reclusione da un anno e sei mesi a sei anni chiunque, al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, avvalendosi di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti indica, in una delle dichiarazioni relative a dette imposte, elementi passivi fittizi con lo scopo di erodere la base imponibile ai fini delle imposte sui redditi e, simmetricamente, conseguire un credito Iva inesistente.
In estrema sintesi, lo schema fraudolento, si realizza mediante l’interposizione, tra l’acquirente e cedente dei beni o dei servizi, di soggetti denominati “cartiere”, ovvero società costituite ad hoc che non hanno dipendenti, che non hanno una reale struttura operativa, che non versano le imposte dovute, ma hanno il solo scopo di creare un credito Iva inesistente nei confronti dell’acquirente finale.
Sotto il profilo sanzionatorio è molto importante distinguere le fatture per operazioni oggettivamente inesistenti rispetto alle fatture soggettivamente inesistenti emesse dalle società cartiere.
Anche in questo caso le indicazioni della Guardia di Finanza consentono di delineare l’ambito logico-giuridico di riferimento, tracciando le differenze sostanziali tra i due diversi meccanismi evasivi:
La distinzione tra fatture oggettivamente e soggettivamente inesistenti assume fondamentale importanza tenuto conto che, qualora non venga provata la consapevolezza di prendere parte ad una frode da parte dell’acquirente, nella particolare ipotesi di fatture soggettivamente inesistenti, il costo dell’acquisto del bene o del servizio può essere riconosciuto deducibile dal reddito d’impresa.
In merito, l’indeducibilità non trova infatti applicazione per i costi e le spese esposti in fattura o altri documenti aventi analogo rilievo probatorio che riferiscono l’operazione a soggetti diversi da quelli effettivi.
Quindi i costi relativi all’acquisizione di beni o servizi che, ancorché documentati da fatture per operazioni soggettivamente inesistenti, non siano stati utilizzati per il compimento di alcun reato, risultano deducibili dal reddito d’impresa, qualora ricorrano i requisiti generali di deducibilità dei costi previsti dall’articolo 109 Tuir.
Il cessionario deve operare sul mercato con criteri di diligenza che normalmente contraddistinguono “l’operatore economico accorto” verificando, con tutti i mezzi a sua disposizione, se il cedente abbia o meno la natura di soggetto meramente interposto.
L’acquirente in buona fede ha comunque l’onere di verificare che l'emittente della fattura sia realmente in grado di fornire quei determinati beni o servizi, sgombrando il campo da eventuali dubbi che facciano sospettare l'esistenza di irregolarità o, in casi estremi, di evasione fiscale.
Tali concetti, sono stati confermati dalla Guardia di Finanza nell’ambito dei quesiti posti nello specifico, e nella particolare ipotesi di fatturazione per operazioni soggettivamente inesistenti, il Fisco potrà negare la detrazione Iva solo qualora venga provata, sotto il profilo oggettivo, la consapevolezza dell’acquirente di prendere parte ad una frode fiscale.
Il cessionario a sua volta dovrà provare di avere agito sulla base dei richiamati criteri di diligenza esigibili da parte di un operatore economico accorto.
La Guardia di Finanza richiama l’orientamento espresso dalla Corte di Cassazione che, con la sentenza n. 24321 del 4 ottobre 2018, ha sancito che ai fini della ripartizione dell'onere della prova, incombe sull'Amministrazione finanziaria dimostrare che, a fronte dell'esibizione del titolo (la fattura), difettano le condizioni oggettive e soggettive per la detrazione Iva.
Spetterà poi al contribuente fornire la prova contraria, ossia di aver svolto le trattative commerciali in buona fede, ritenendo incolpevolmente che le merci acquistate fossero effettivamente rifornite dalla società cedente.
Ai fini probatori, non rilevano altri elementi quali, la regolarità formale delle scritture, le evidenze contabili dei pagamenti, l'inesistenza di un dimostrato vantaggio.
L’acquirente potrà dimostrare la propria buona fede conservando traccia della corrispondenza commerciale intercorsa con il cedente, dei riscontri effettuati presso i registri conservati dalle Camere di Commercio, che confermino la regolare esistenza del fornitore, dell’identità degli interlocutori con cui sono state condotte le trattative commerciali, nonché la loro riconducibilità al soggetto cedente indicato nella fattura emessa.
Quadro Normativo |
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