La Corte di Cassazione, prima sezione penale, non ha escluso la detenzione domiciliare (o in altro luogo di degenza) per Totò Riina; boss di Cosa nostra in carcere ormai da tempo ed affetto da grave patologia allo stato terminale. Sarà ora il Tribunale di Sorveglianza, cui di nuovo è rimessa la decisione, stabilire se il carcere sia compatibile o meno con lo stato di malattia in cui versa il detenuto.
I Giudici Supremi hanno così accolto il ricorso del Boss, avverso la pronuncia con cui il Tribunale di Sorveglianza aveva rigettato la sua richiesta di differimento di esecuzione della pena o di esecuzione nella forma di detenzione domiciliare. Il provvedimento impugnato, in particolare, aveva escluso che l’infermità fisica del ricorrente fosse incompatibile con la detenzione in carcere, in ragione della trattabilità delle patologie anche in ambiente carcerario, stante il continuo monitoraggio e l’adeguatezza degli interventi d’urgenza, anche a mezzo di tempestivi ricoveri in ospedale.
Detta motivazione – osservano invece gli ermellini – risulta tuttavia parziale ed inadeguata a sostenere la compatibilità del carcere con le condizioni di salute del detenuto, in quanto il Tribunale omette di considerare il complessivo stato morboso dello stesso e le sue condizioni di scadimento fisico, capaci di determinare, in stato di restrizione carceraria, un’esistenza al di sotto della soglia di dignità.
In altri termini, afferma la Corte, in presenza di patologie implicanti, come nel caso de quo, un significativo scadimento delle condizioni generali del detenuto, il giudice di merito deve verificare adeguatamente, motivando in proposito (mentre nella specie detta motivazione sarebbe carente), se lo stato di detenzione carceraria comporti una sofferenza ed un’afflizione di tale intensità da eccedere il livello che, inevitabilmente, deriva dalla legittima esecuzione della pena. Al di là, quindi, della trattabilità delle singole patologie, ciò che rileva nel giudizio de quo, è la valutazione complessiva dello stato di logoramento in cui versa il soggetto, aggravato da altre cause patologiche quale la vecchiaia.
Anche in favore del Boss mafioso, così come per ogni detenuto, va dunque affermata, secondo il Collegio, l’esistenza del “diritto a morire dignitosamente”.
Il provvedimento impugnato - chiariscono infine i Giudici Supremi con sentenza n. 27766 del 5 giugno 2017 - fermo in ogni caso l’indubbio spessore criminale del detenuto in questione e la conseguente pericolosità, non chiarisce tuttavia (con argomentazioni esaurienti) come detta pericolosità debba ritenersi ancora attuale alla luce della sopravvenuta precarietà di salute e del generale stato di decadimento fisico.
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