Molestie sessuali a cliente: condotta grave, sì al licenziamento

Pubblicato il 29 marzo 2022

Confermato, dalla Cassazione, il licenziamento senza preavviso irrogato a un medico psichiatra per le molestie sessuali rivolte a una propria paziente. La relativa condotta è stata ritenuta di gravità tale da giustificare il recesso in tronco, non essendo sussumibile nella mera infrazione punita dal CCNL con la sanzione conservativa.

Molestie nel corso di terapia psichiatrica, condotta di particolare gravità

Con sentenza n. 9931 del 28 marzo 2022, la Suprema corte ha definitivamente confermato il licenziamento disciplinare per giusta causa che un'azienda sanitaria aveva comminato ad un medico psichiatra per avere intrattenuto, con una paziente, un rapporto estraneo a quello tra sanitario e paziente, in quanto accompagnato dalla ricerca di una relazione di natura sessuale.

Al medico era stato contestato di aver posto in essere, anche tenuto conto dell'evidente squilibrio di posizioni che caratterizza la relazione professionale di tipo psichiatrico, una condotta di gravità tale da non consentire la prosecuzione del rapporto di lavoro, neppure a titolo provvisorio.

Il provvedimento di recesso era stato giudicato legittimo anche dalla Corte d'appello, la quale aveva ritenuto provata la condotta oggetto di contestazione ed aveva condiviso la valutazione di gravità già espressa in primo grado.

Era stato escluso, in particolare, che la condotta potesse qualificarsi esclusivamente in termini di "molestie personali anche a carattere sessuale", con conseguente applicazione della sanzione conservativa della sospensione dal servizio e della privazione della retribuzione fino a sei mesi, secondo la previsione contenuta nel CCNL di riferimento.

Sul punto, la Corte territoriale aveva espressamente disatteso la tesi difensiva con cui il dipendente aveva fatto appello proprio alla citata disposizione della contrattazione collettiva per affermare l'illegittimità del licenziamento.

Tale rilievo era stato sottoposto anche alla Corte di cassazione, a cui il medico si era rivolto per far valere le proprie ragioni: alla fattispecie lui contestata doveva applicarsi la norma del CCNL che specificamente prevedeva tale condotta, punendola con una sanzione conservativa.

Il motivo di doglianza, tuttavia, non è stato accolto dal Collegio di legittimità, il quale ha richiamato il consolidato principio enunciato dalla giurisprudenza secondo cui:

"In materia di licenziamenti disciplinari, nell’ipotesi in cui un comportamento del lavoratore, invocato dal datore di lavoro come giusta causa di licenziamento, sia configurato dal contratto collettivo come infrazione disciplinare cui consegua una sanzione conservativa, il giudice non può discostarsi da tale previsione, trattandosi di condizione di maggior favore fatta espressamente salva dall’articolo 12 della legge 604/66, a meno che non accerti che le parti non avevano inteso escludere, per i casi di maggiore gravità, la possibilità della sanzione espulsiva".

Era condivisibile, nel caso in esame, la valutazione operata dai giudici di merito a proposito del fatto che il comportamento tenuto dal medico non potesse qualificarsi come "molestie personali anche a carattere sessuale", poiché tale condotta aveva leso la sfera personale e sessuale della paziente ed era stata realizzata, nel contempo, in violazione degli obblighi fondamentali della relazione tra medico psichiatra e paziente.

Sussisteva, inoltre, una radicale violazione degli obblighi deontologici del professionista sanitario, una violazione tanto più grave perché realizzata nel corso di una terapia psichiatrica che vede, per sua stessa natura, uno dei soggetti coinvolti in una condizione di fragilità o di difficoltà personale.

La violazione contestata, ciò considerato, si collocava ben al di là della disposizione che prevedeva solo la sanzione della sospensione, dovendosi ricondurre nell'ambito della norma di carattere generale e residuale presente nel medesimo contratto collettivo, norma che rendeva possibile l'applicazione del licenziamento in tutti i casi di atti e comportamenti "non ricompresi specificamente nelle lettere precedenti", posti in essere "anche nei confronti di terzi e di gravità tale da non consentire la prosecuzione neppure provvisoria del rapporto".

Le stesse conclusioni - ha evidenziato la Corte - sono state confermato dalla Cassazione, di recente, in una fattispecie sovrapponibile a quella di specie, relativa al licenziamento irrogato ad un dirigente a causa delle molestie sessuali rivolte nei confronti di una cliente.

Atti ritenuti non sussumibili, stante la gravità del comportamento posto in essere con abuso di qualità, nelle previsioni contrattuali che disponevano la misura conservativa per i meri atti di molestia, anche sessuale.

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