Lo stato di depressione causata da crisi economica esclude l’eventuale sanzione amministrativa?

Pubblicato il 29 novembre 2013

Caio, amministratore unico di Beta, cade in uno stato di agitazione e depressione causato dalla grave congiuntura economica, i cui effetti hanno invero generato pesanti passivi nel bilancio aziendale. In tale contesto emotivo Caio commette una serie di illeciti in materia lavoristica, che vengono riscontrati e sanzionati dagli ispettori della DTL. La DTL conclude il procedimento adottando un provvedimento di ordinanza ingiunzione, la quale viene opposta da Caio, il quale adduce a propria discolpa l’assenza di un’effettiva capacità di discernimento causata dal disturbo della personalità accusato in ragione delle perdite subite dall’azienda. È fondata la censura di Caio?



Premessa

L’imputabilità è l’asse sul quale ruota il principio di colpevolezza. Nell’ambito della L. n. 689/81 il minore di anni diciotto viene considerato dall’art. 2 non imputabile e, pertanto, gli eventuali illeciti da costui commessi vengono ascritti al soggetto che era tenuto a esercitare vigilanza. Il maggiorenne, invece, per il solo fatto di avere compiuto diciotto anni di età è considerato presuntivamente capace di autodeterminarsi e, quindi, di cogliere consapevolmente il significato della propria azione. Si tratta di una presunzione relativa, poiché spetta al maggiorenne dimostrare di non essere compos sui (padrone di sé) per cause psicofisiche in grado di menomare la propria capacità di discernimento. Tale dimostrazione escluderebbe la responsabilità colpevole dell’autore del fatto e quindi renderebbe non applicabile a costui la sanzione amministrativa.

L’imputabilità nella L. n. 689 cit.

L’individuazione della disciplina della causa di esclusione dell’imputabilità è operata mediante il richiamo da parte dell’art. 2, comma 1, della L. n. 689/981 ai criteri indicati dal codice penale. La norma dispone testualmente che “non può essere assoggettato a sanzione amministrativa chi, al momento in cui ha commesso il fatto, non aveva compiuto i diciotto anni o non aveva, in base ai criteri indicati nel codice penale, la capacità di intendere e di volere […]”.

I criteri del codice penale

A tale riguardo l’art. 88 del c.p. dispone che “non è imputabile chi, nel momento in cui ha commesso il fatto, era per infermità, in tal stato di mente da escludere la capacità di intendere e di volere”.

Per quanto riguarda il profilo temporale, la sussistenza o meno della capacità va vagliata “nel momento della commissione del fatto”; dal punto di vista eziologico occorre invece appurare se tale status degenerativo abbia o meno compromesso la capacità di intendere e di volere del soggetto ed eventualmente in quale misura.

Sotto quest’ultimo profilo va rilevato che il c.p. distingue vizio di mente totale o parziale.

Segnatamente il vizio è totale se l’infermità, anche di natura transitoria, è tale da escludere del tutto la capacità di intendere e volere. Il vizio invece è parziale quando l’infermità assume in concreto una connotazione di grado inferiore. In tale caso, in parallelismo con quanto previsto dall’art. 89 c.p., è ipotizzabile una diminuzione della sanzione applicata.

In ogni caso l’esclusione dell’imputabilità per vizio totale o parziale di mente presuppone che il fatto di reato sia causalmente riconducibile a quello specifico disturbo mentale, che deve comunque essere ritenuto idoneo ad alterare l’intendere e il volere dell’autore della condotta illecita. Sebbene la capacità intellettiva e volitiva costituiscono categorie concettuali autonome, il riferimento della norma a entrambe lascia desumere che l’imputabilità debba essere congiuntamente riferita a tutte e due le attitudini. Sicché, ove difetti anche una sola di esse, l’imputabilità dovrebbe essere esclusa.

Sul piano sostanziale la tipologia del disturbo deve avere connotati tali da poter essere sussunta nell’ambito dell’infermità, il cui portato euristico, senza trascendere in altre discipline che richiederebbero altri studi, è stato considerato da autorevole dottrina e da recente giurisprudenza più ampio di quello di malattia, perché comprenderebbe anche disturbi di carattere non strettamente patologico.

La psicopatia è infermità?

Su quest’ultimo aspetto la giurisprudenza, insieme ad altre discipline non giuridiche, si è interrogata per anni se l’infermità mentale dovesse o meno coincidere con un modello medico di patologia e, quindi, se dovesse essere ricondotta a un preciso quadro nosografico-clinico oppure se assumesse valore anche l’alterazione mentale atipica rispetto alle classificazioni mediche, che viene comunemente denominata anomalia del carattere e che per parte della scienza psichiatrica ingloba la psicopatia.

L’orientamento della Suprema Corte di Cassazione

Sulla materia si sono formati molteplici indirizzi, influenzati dall’evoluzione della scienza medica e psichiatrica, che, per esigenza di semplificazione (atteso che la tematica sarebbe alquanto complessa e di non facile lettura), non vengono esposti, ma la cui analisi è stata compiuta dalle SS.UU. della Corte di Cassazione che con sentenza n. 9163 del 25/01/2005 hanno composto, da un punto di vista giuridico e in funzione nomofilattiche, le molteplici prospettazioni.

Nell’occasione la Corte ha stabilito che “in tema di imputabilità, ai fini del riconoscimento del vizio totale o parziale di mente, anche i ‘disturbi della personalità’, che non sempre sono inquadrabili nel ristretto novero delle malattie mentali, possono rientrare nel concetto di ‘infermità’ […]”. L’affermazione tuttavia è stata mitigata dalle seguenti condizioni:

  1. l’anomalia deve possedere consistenza, intensità e gravità tali da incidere concretamente sulla capacità di intendere o di volere, escludendola o scemandola grandemente. La gravità in sostanza deve essere tale da cagionare un vero e proprio stato patologico, cioè uno squilibrio mentale determinante una vera e propria compromissione delle capacità intellettiva e volitiva;

  2. per converso non assumono rilievo, ai fini dell’imputabilità, altre “anomalie caratteriali”, “disarmonie della personalità”, “alterazioni di tipo caratteriale”, “deviazioni del carattere e del sentimento”, ovvero legate “alla indole” del soggetto, che, pur attenendo alla sfera del processo psichico di determinazione e di inibizione, non attingano a quel grado di incisività tale da menomare la capacità di autodeterminazione del soggetto agente;

  3. in applicazione dell’art. 90 del c.p. nessun rilievo va riconosciuto agli stati emotivi e passionali, salvo che questi ultimi non si inseriscano, eccezionalmente, in un quadro più ampio di infermità tale per consistenza, intensità e gravità da incidere concretamente sulla capacità di intendere e di volere;

  4. tra il disturbo mentale ed il fatto di illecito deve sussistere un nesso eziologico, che consenta di ritenere il secondo causalmente determinato dal primo.

La giurisprudenza successiva si è di fatto uniformata al principio testé espresso, stabilendo con massime di tenore analogo che in tema di imputabilità, ai fini del riconoscimento della sussistenza del vizio totale o parziale di mente, acquistano rilievo solo quei disturbi della personalità di tale consistenza e gravità da determinare, in concreto una situazione di assetto psichico incontrollabile ed ingestibile.

Le alterazioni che in linea di massima non costituiscono infermità

Agli scriventi pare che i concetti di gravità o consistenza o intensità difettino di parametri oggettivamente determinabili e che grande influenza nel giudizio assume la cultura dell’organo giudicante, condizionata altresì dalle relazioni mediche effettuate dai consulenti professionali all’uopo incaricati. La materia è talmente magmatica e strettamente ancorata al caso concreto, che difficilmente appare possibile addivenire a un criterio decifrabile in maniera certa e univoca.

Comunque in tale prospettiva la giurisprudenza ha ritenuto in linea di massima ininfluenti:

  1. le specifiche condizioni socio-ambientali e familiari di vita dell’autore del fatto;

  2. la gelosia perché stato passionale;

  3. un generico stato di agitazione determinato da una crisi di astinenza dall’abituale consumo di sostanze stupefacenti, a meno che la stessa comporti un vero e proprio squilibrio psichico;

  4. l’eventuale stato d’ira;

  5. la sindrome ansiosa depressiva;

  6. il gruppo delle cosiddette “abnormità psichiche” come nevrosi o reazioni a “corto circuito” che hanno natura transitoria e non sono indicative di uno stato morboso.

Senza indagare ulteriormente una tematica dai contenuti scivolosi e complessi, quanto sopra esposto può essere sufficiente per analizzare il caso che occupa.

Il caso concreto

Caio, amministratore unico di Beta, è caduto in uno stato di agitazione e depressione causato dalla grave congiuntura economica, i cui effetti hanno generato pesanti passivi nel bilancio aziendale. In tale contesto emotivo Caio ha commesso una serie di illeciti in materia lavoristica che sono stati riscontrati e sanzionati dagli ispettori della DTL. La DTL ha concluso il procedimento adottando un provvedimento di ordinanza ingiunzione, la quale è stata opposta da Caio, il quale ha addotto a propria discolpa l’assenza di imputabilità causata dal disturbo della personalità accusato per effetto delle perdite subite dall’azienda. Agli scriventi pare che tale circostanza sia di per sé ininfluente ai fini dell’esclusione dell’imputabilità, perché l’alterazione mentale invocata non costituisce uno squilibrio psichico astrattamente in grado di incidere sulla capacità di discernimento del soggetto. Se tuttavia Caio riuscisse a dimostrare di essere affetto da un grave e ingestibile disturbo della personalità, con un indice di gravità tale da menomare in concreto le proprie capacità cognitive al punto da assumere i seri connotati di un’alterazione intellettiva, allora pare ipotizzabile addurre l’infermità mentale e invocare l’art. 2 della L. n. 689 cit. per ottenere conseguentemente in giudizio la caducazione dell’ordinanza ingiunzione.


NOTE

i Cass. pen. Sez. IV Sent., 13/07/2007, n. 36190.

ii Così la capacità di intendere può essere qualificata come idoneità del soggetto a rendersi conto del valore delle proprie azioni e quindi avente la capacità di rendersi conto del significato del proprio comportamento e di valutarne conseguenze e ripercussioni. La capacità di volere a sua volta consiste nella idoneità del soggetto medesimo ad autodeterminarsi in modo coerente e in modo che appare più ragionevole o preferibile in base alla concezione dei valori di cui è portatore.

iii Tuttavia per una valorizzazione di indipendenza dei due concetti cfr. Cass. pen. Sez. VI, 05/04/2012, n. 18458.

iv Il concetto di malattia assume significati differenti e non è oggettivamente declinabile. Il significato muta a seconda che venga analizzato secondo la scienza medica, ovvero la scienza psicologica o sociologica.

v Fiandaca - Musco Diritto penale - parte generale quarta edizione 2005 pag. n.300.

vi Cass. pen., 31/03/2005, n. 16574.

vii In questo senso recentemente anche cfr. Cass. pen. Sez. V, 16/01/2013, n. 9843.

viii Cass. pen. Sez. V, 16/01/2013, n. 9843; Cass. pen. Sez. II, 22/05/2012, n. 24535; Cass. pen. Sez. I, 04/04/2012, n. 14808; Cass. pen. Sez. VI, 27/10/2009, n. 43285; Cass. pen. Sez. II Sent., 02/12/2008, n. 2774; Cass. pen. Sez. V Sent., 09/02/2006, n. 8282.

ix Cass. pen. Sez. II, 26/01/2011, n. 6970; Cass. pen. Sez. VI, 27/10/2009, n. 43285.

x Cass. pen. Sez. VI, 20/04/2011, n. 17305.

xi Cass. pen. Sez. VI, 25-03-2010, n. 12621; Cass. pen. Sez. I, 26-10-2006, n. 37020.

xii Cass. pen. Sez. V, 18/02/2011, n. 14482.

xiii Cass. pen. Sez. V Sent., 06/11/2008, n. 44045.

xiv Cass. pen. Sez. VI, 12/04/2007, n. 21867.


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