Rischia il licenziamento per giusta causa il dipendente che rivolge allusioni a sfondo sessuale alle colleghe di lavoro.
Con sentenza n. 23295 del 31 luglio 2023, la Corte di cassazione ha definitivamente confermato il licenziamento disciplinare intimato ad un lavoratore, al quale era stato contestato di aver tenuto comportamenti consistenti in molestie sessuali in danno di una giovane collega, appena assunta.
Gli Ermellini, in particolare, hanno rigettato le ragioni con cui il prestatore si era opposto alla decisione d'appello di convalida della legittimità del comminato licenziamento.
I giudici di merito, in particolare, avevano ritenuto che il comportamento addebitato al ricorrente, denunciato in due occasioni dalla lavoratrice alla direzione aziendale, costituisse giusta causa di recesso.
La condotta, nella specie, era consistita in allusioni verbali e fisiche a sfondo sessuale, comunque indesiderate e oggettivamente idonee a ledere e violare la dignità della collega di lavoro.
In tale contesto, era stato giudicato irrilevante il fatto che fosse assente la volontà offensiva e che, in generale, il clima dei rapporti tra tutti i colleghi fosse spesso scherzoso e goliardico.
Le conclusioni cui era giunta la Corte territoriale sono state ritenuto corrette dalla Suprema corte.
La Corte di appello aveva preso le mosse dalla definizione di molestia contenuta nell'art. 26 del D. Lgs. n. 198/2006 ed aveva considerato come tali i comportamenti indesiderati, posti in essere dal ricorrente per ragioni connesse al sesso, aventi lo scopo o l'effetto di violare la dignità di una lavoratrice o di un lavoratore e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante o offensivo.
Aveva valutato, così, che il carattere comunque indesiderato della condotta, pur senza che ad essa fossero conseguite effettive aggressioni fisiche a contenuto sessuale, risultasse integrare il concetto e la nozione di molestia.
La molestia - si legge nella decisione - nonché la conseguente tutela accordata, sono fondate, infatti, sulla oggettività del comportamento tenuto e dell'effetto prodotto, risultando irrilevante la effettiva volontà di recare una offesa.
Per i giudici di Piazza Cavour, in definitiva, il giudizio espresso dalla Corte di merito, basato sulla corretta sussunzione dei fatti accertati attraverso le prove acquisite nella nozione legale di molestie, rientrava nella regolare attività valutativa del giudice di merito.
La censura proposta dal lavoratore - volta a dedurre, apparentemente, una violazione di norme di legge - risultava pertanto inammissibile, mirando, in realtà, alla rivalutazione dei fatti operata dall'organo giudicante, così da realizzare una trasformazione del giudizio di legittimità in un nuovo e non consentito terzo grado di merito.
Ai sensi dell'individuazione delle modalità semplificate per l'informativa e l'acquisizione del consenso per l'uso dei dati personali - Regolamento (UE) n.2016/679 (GDPR)
Questo sito non utilizza alcun cookie di profilazione. Sono invece utilizzati cookie di terze parti legati alla presenza dei "social plugin".