Il lavoro a chiamata, chiamato anche “job on call” o “lavoro intermittente”, è caratterizzato dalle prestazioni a carattere discontinuo rese dal lavoratore secondo le richieste dell’impresa. Dunque, la peculiarità del lavoro intermittente è la non continuità delle prestazioni lavorative richieste dal datore di lavoro. In tale tipo di lavoro, infatti, la frequenza delle prestazioni lavorative e la durata delle stesse, non sono predeterminabili a differenza del lavoro a tempo pieno o parziale che, invece, impone una precisa indicazione dell’orario e del periodo temporale in cui il lavoro si svolgerà.
Tuttavia, non la pensa così la Corte di Cassazione con l’ordinanza n. 26274 del 18 novembre 2020, stabilendo che tali lavoratori sono veri e propri dipendenti perché la chiamata ben può costituire una modalità in cui è articolata la prestazione e non esclude la natura subordinata né la continuità del vincolo. Ciò grazie all’analisi incrociata delle dichiarazioni rese dai prestatori prima agli ispettori del lavoro e poi in sede giudiziale. L’INPS, dal canto suo, deve provare il credito contributivo anche quando è convenuto nel giudizio di accertamento negativo.
Una società è stata condannata ai contributi INPS e ai premi INAIL per quattro lavoratori, fra i quali due cameriere addette “a chiamata”.
Secondo gli ermellini, la circostanza che i lavoratori sono impiegati mediante l’istituto contrattuale del lavoro “a chiamata” non esclude la subordinazione laddove la call può costituire un’articolazione del lavoro modulata secondo le variabili esigenze aziendali.
E spetta solo ai giudici del merito accertare in base alle risultanze processuali gli elementi che rivelano l’esistenza dei parametri per individuare la natura subordinata o autonoma del rapporto e ricondurre la prestazione al suo modello.
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