Il lavoratore non residente deve assoggettare a ritenuta a titolo d’acconto in Italia le somme percepite in esito ad una conciliazione giudiziale per mancata stipula del contratto di lavoro ed erogate da una società residente in Italia.
A specificarlo è l’Agenzia delle Entrate, con la risposta dall’interpello n. 578 del 10 dicembre 2020.
L’AdE si è espressa in merito a un caso che contrapponeva un lavoratore non residente a una società residente in Italia, la quale – a seguito di un verbale di conciliazione giudiziale – s’impegnava:
o, in alternativa,
In merito al trattamento fiscale, l’Agenzia delle Entrate evidenziava che l’art. 17, co. 1, lett. a) del TUIR prevede che siano assoggettate a tassazione separata “le altre indennità e somme percepite una volta tanto in dipendenza della cessazione dei predetti rapporti di lavoro, comprese (…) le somme e i valori comunque percepiti, al netto delle spese legali sostenute, anche e a titolo risarcitorio o nel contesto di procedure esecutive, a seguito di provvedimenti dell’autorità giudiziaria o di transazioni relativi alla risoluzione del rapporto di lavoro”.
Sul punto, l’Agenzia delle Entrate evidenzia che la tassazione in Italia sia collegata e rappresentata dalla residenza fiscale italiana del soggetto erogante, ai sensi della presunzione assoluta recata dall’art. 23, co. 2, lett a) del TUIR per i redditi assimilati a quelli di lavoro dipendente.
In conclusione, l’AdE afferma che all’atto del pagamento dei suddetti emolumenti, la società è tenuta ad applicare le ritenute alla fonte con le modalità previste dall’art. 23, co. 2, lett d) del Dpr. n. 600/1973.
Diversamente, non opera la ritenuta a titolo d’imposta prevista dall’art. 25, co. 2 del Dpr. n. 600/1973 per i redditi derivanti da obbligazioni di fare, non fare, permettere ai sensi dell’art. 67, co. 1, lett. 1 del TUIR.
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