L’attività professionale non è indice di rischio per la recidiva

Pubblicato il 09 gennaio 2019

Il pericolo di recidiva, tale da giustificare l’applicazione della misura cautelare, non può essere fondato sul mero svolgimento dell’attività professionale da parte del commercialista, indagato per reati tributari.

La Cassazione ha annullato un’ordinanza con cui era stata disposta, a carico di un professionista, la misura cautelare del divieto di esercizio e della professione di dottore commercialista per la durata di 12 mesi.

Il provvedimento cautelare era stato assunto nell’ambito di un’indagine in cui al commercialista erano contestati i reati di dichiarazione infedele e di indebite compensazioni, sul rilievo di gravi indizi di colpevolezza e del pericolo di recidiva.

L’indagato aveva avanzato ricorso in sede di legittimità, lamentando la violazione dell’articolo 606 del Codice di procedura penale, in relazione alla sussistenza del pericolo concreto e attuale di recidiva.

Sussistenza che - a suo dire – era stata confermata dal Tribunale con motivazione carente per quel che riguardava la concretezza e l’attualità delle esigenze cautelari, senza considerare l’episodicità del fatto contestato e il limitato coinvolgimento del ricorrente nella vicenda.

Valutazione del concreto e attuale pericolo di recidiva

La Terza sezione penale della Suprema corte, con sentenza n. 406 depositata l’8 gennaio 2019, ha ritenuto fondata detta doglianza, evidenziando come, nella specie, il Tribunale del riesame non avesse operato una valutazione del concreto e attuale pericolo di recidiva, attraverso un giudizio valutativo dal quale desumere la concreta ricaduta nel delitto in termini di alta probabilità.

Valutazione che – ha sottolineato la Corte – non può atteggiarsi in termini di mera potenzialità del pericolo, in ipotesi desumibile da circostanze distanti nel tempo o dalla gravità del reato posto a base del titolo restrittivo, ma deve fondarsi su dati concreti ed oggettivi attinenti al caso concreto.

E questo senza contare la carenza dell’ordinanza per quel che riguardava l’individuazione degli elementi da cui desumere il pericolo concreto e attuale di reiterazione dei reati della stessa indole.

Nel caso in esame, infatti, il pericolo di recidiva non poteva essere collegato al mero svolgimento dell’attività professionale di dottore commercialista, posto che detta attività non poteva essere considerata alla stregua di un’occasione di ricaduta.

Si trattava, di per sé, di un’attività lecita, non essendo stati apprezzati elementi obiettivi da cui trarre che la stessa fosse stata messa al servizio di fini illeciti.

Peraltro, il professionista non risultava nemmeno coinvolto nella commissione degli altri reati in cui erano implicati i suoi concorrenti nell’ambito della vasta indagine avviata dalla Procura.

In definitiva, la motivazione resa dal Tribunale appariva “assertiva e carente” sotto il profilo dell’attualità e concretezza nella dimensione temporale del pericolo di recidiva, in termini di elevata probabilità di ricaduta nel delitto.

Il detto pericolo, si ribadisce, non poteva fondarsi solo sullo svolgimento dell’attività professionale di dottore commercialista.

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