L'accertata esistenza di una dequalificazione o di plurime condotte datoriali illegittime non è sufficiente perché possa dirsi integrata una condotta datoriale di mobbing.
E' infatti necessario, a tal fine, che il lavoratore alleghi e provi, con elementi ulteriori e concreti, che i comportamenti del datore costituiscono il frutto di un disegno persecutorio unificante, preordinato alla prevaricazione del dipendente.
Lo ha rammentato la Corte di cassazione con ordinanza n. 17974 del 3 giugno 2022, pronunciata in rigetto del ricorso avanzato da una lavoratrice contro una decisione della Corte d'appello.
I giudici territoriali, in particolare, avevano respinto la domanda dalla stessa proposta al fine di veder condannare il datore di lavoro al risarcimento del danno per la dequalificazione professionale asseritamente subita che, a suo dire, aveva integrato un'ipotesi di mobbing.
Secondo la Corte territoriale, per contro, non era emerso, dal materiale istruttorio, alcun intento datoriale persecutorio, non rilevandosi nemmeno un'emarginazione lavorativa determinata da comportamenti datoriali, né una situazione di forzata inoperatività, frutto di un disegno vessatorio.
Ciò che poteva piuttosto evidenziarsi, nella vicenda in esame, era solo un raffreddamento dei rapporti tra le parti.
Valutazione, questa, confermata anche dalla Suprema corte, secondo la quale il libero apprezzamento del materiale istruttorio operato dalla Corte di gravame - insindacabile, in sede di legittimità - aveva portato, del tutto plausibilmente, al convincimento secondo cui i pregiudizi lamentati dalla ricorrente erano solamente il frutto di screzi e conflitti interpersonali nell'ambiente di lavoro, non caratterizzati, per la loro stessa natura, da volontà persecutoria, e come tali, idonei ad escludere il mobbing.
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