Il Ministero del lavoro, a mezzo di comunicato stampa del 13 giugno 2015, reperibile anche nella rubrica “edicola del 16/06/2015”, contenuta nel sito www.edotto.com, ha fornito chiarimenti sulle modifiche che verrebbero apportate dal “Jobs Act” al regime sanzionatorio per lavoro nero.
Va premesso che allo stato attuale il decreto attuativo è al vaglio del Parlamento e che pertanto potrebbe essere suscettibile di cambiamenti.
Attualmente l’art. 3 comma 3 del D.L. 22 febbraio 2002, n. 12, conv. con mod. dalla L. 23 aprile 2002, n. 73 (sul quale si sono registrati nel corso degli anni plurimi interventi di modifica da ultimo a opera del D.L. n. 145/2013, conv. con mod. dalla L. n. 9/2014) prevede l’applicazione della maxisanzione in misura fissa, per complessivi €. 3.900,00 per ogni lavoratore subordinato occupato, per il quale il datore di lavoro, non domestico, abbia omesso di comunicare al Servizio per l’impiego l’instaurazione del rapporto di lavoro. L’importo viene altresì maggiorato di €. 65,00 per ciascuna giornata di occupazione in nero. Per il lavoro nero non è prevista l’adozione del provvedimento di diffida ex art. 13 D.lgs. n.124/04. Il quadro normativo prevede una sanzione minore nell’ipotesi in cui l’accertamento del lavoro nero riguardi un periodo pregresso rispetto alla data in cui il datore di lavoro abbia formalmente assunto il medesimo lavoratore (c.d. ipotesi di lavoro nero affievolita).
L’art. 22 del decreto di semplificazione al vaglio del Parlamento ridisegna ancora una volta il regime normativo dell’istituto de quo, nel senso che introduce dei meccanismi sanzionatori suddivisi in fasce, parametrate sulle giornate di lavoro effettivo in nero. In tale modo le giornate di lavoro effettivo, contrariamente a quanto indicato nella relazione governativa (in cui viene affermato che gli importi sanzionatori non sono più legati alla singola giornata di lavoro irregolare) costituiscono elemento determinante per l’individuazione della fascia applicabile all’illecito riscontrato. Tali fasce sono così suddivise:
da euro 1.500 a euro 9.000 per ciascun lavoratore irregolare, in caso di impiego del lavoratore sino a trenta giorni di effettivo lavoro;
da euro 3.000 a euro 18.000 per ciascun lavoratore irregolare, in caso di impiego del lavoratore da trentuno e sino a sessanta giorni di effettivo lavoro;
da euro 6.000 a euro 36.000 per ciascun lavoratore irregolare, in caso di impiego del lavoratore oltre sessanta giorni di effettivo lavoro.
Il decreto reintroduce l’istituto della diffida ex art. 13 D.lgs. n. 124 cit., la cui adozione permetterà l’applicazione delle sanzioni testé descritte in misura minima. Tuttavia l’adozione della diffida risulta condizionata alle seguenti ipotesi:
il lavoratore all’atto dell’accertamento dell’illecito deve risultare ancora in forza al datore di lavoro;
il lavoratore deve essere assunto con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato full-time ovvero part-time con riduzione dell’orario di lavoro in misura non superiore al 50% dell’orario a tempo pieno;
il lavoratore può essere assunto con contratto di lavoro a termine ma la cui durata non può essere inferiore a tre mesi;
il lavoratore successivamente all’assunzione deve rimanere in forza al datore di lavoro per almeno tre mesi, decorrenti, per un principio di ragionevolezza e in assenza di indicazioni normative, dalla data di instaurazione del rapporto di lavoro.
Alla luce di tale quadro normativo si impongono brevi osservazioni.
L’appellativo della bozza del decreto attuativo è “semplificazione gestionale e procedurale”.
A dir la verità di semplificazione se ne riscontra ben poca, a cominciare dalla diffida: l’accertamento sull’adempimento o meno da parte del datore di lavoro delle condizioni di ammissibilità al suddetto istituto premiale, infatti, impone al personale ispettivo di attendere almeno 120 giorni dalla data di adozione dell’atto. Spirato tale termine i predetti funzionari dovranno ripetere le verifiche sulla effettiva occupazione del lavoratore da parte dell’impresa.
Senza considerare poi che il sistema premiale, così congeniato, si presta a facili elusioni, dal momento che il datore di lavoro potrebbe indurre il lavoratore a collocarsi in malattia per tutto o in parte il periodo oggetto di regolarizzazione, con conseguente aggravio, o meglio frode, dell’ente tenuto alla corresponsione dell’indennità in questione.
L’aspetto poi che più di ogni altro appare criticabile è dato dal mantenimento di importi sanzionatori elevati, i quali, se è vero che in alcuni casi saranno diminuiti (adottabilità della diffida e poche giornate di lavoro nero) in altri saranno addirittura accresciuti (non adottabilità della diffida e giornate di lavoro superiori a 60). Tale concezione sembra dettata dalla discutibile convinzione che l’aumentare della pena postuli il disincentivo alla commissione dell’illecito.
In realtà l’aumento abnorme delle sanzioni pecuniarie non porta benefici economici, anzi, conduce a risultati esattamente contrari, specie per le casse dello Stato. Infatti i destinatari di sanzioni elevate raramente adempiono ai debiti erariali. Di contro lo Stato è costretto a spendere molte risorse per il recupero di somme, che il più delle volte rimangono inesigibili.
Forse sarebbero state più opportune delle misure che prevedessero delle sanzioni di importo contenuto, articolate sì in fasce, ma parametrate non sulle giornate di lavoro, bensì sulla dimensione delle impresa e sulla conseguente capacità di quest’ultima di ammortizzare l’illecito commesso e per l’effetto di redimere il proprio comportamento.
Probabilmente si potevano vagliare anche altre soluzioni. Poteva ad esempio essere introdotto, se del caso accanto a un regime sanzionatorio mite, un sistema a punteggio, sostanzialmente simile a quello vigente per la patente di guida, secondo cui il riscontro di determinati illeciti connotati da gravità (lavoro nero o gestione illecita della Cassa integrazione, appalti non genuini) determinerebbe, a carico del datore di lavoro, la sottrazione di punti. Una volta esauriti questi, verrebbero applicate misure interdittive all’esercizio dell’impresa, pressoché analoghe a quelle previste dal D.lgs. n. 231/2001, che disciplina la responsabilità amministrativa/penale delle persone giuridiche per i reati commessi dai soggetti che operano nel contesto operativo delle stesse.
Corollario di tale impostazione sarebbe stata l’eliminazione del provvedimento di sospensione ex art. 14 D.lgs. n. 81/08, la cui legittimità sembra tuttora non predicabile rispetto al principio del ne bis in idem sostanziale, che vieta l’applicazione di due sanzioni per un medesimo fatto (cfr. Sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo del 4 marzo 2014 - Ricorso n. 18640/10 - Grande Stevens e altri c. Italia, http://goo.gl/Otcntm).
Per quanto si cerchi di giustificare il provvedimento di sospensione sull’assunto che lo stesso non avrebbe solo natura sanzionatoria, ma anche cautelare (cfr. circolare Ministero Lavoro n. 33 del 2009: in tale caso allora andrebbe spiegato perché l’adozione dell’atto vanga parametrata su calcoli percentuali, piuttosto che su esigenze concrete di pericolo per la sicurezza, come stabilito peraltro dalla Corte Costituzionale con sentenza n. 310/2010), non appare revocabile in dubbio che la sanzione inflitta con tale provvedimento interdittivo costituisca una duplicazione della sanzione irrogata, ai sensi dell’art. 16 della L. n. 689/81, per lavoro nero.
Il Legislatore della c.d. riforma ha preferito soprassedere su tali aspetti, confermando la disciplina di cui all’art. 14 del D.lgs. n. 81 cit., ma riconoscendo quantomeno al trasgressore la facoltà di conseguire la revoca dell’atto mediante un pagamento parziale della sanzione irrogata, ovvero attraverso un pagamento rateale della stessa.
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