La Corte di cassazione, con sentenza n. 35696 del 14 dicembre 2020, ha annullato, con rinvio, una decisione di condanna per il reato di omesso versamento dell’Iva, impartita in capo ad un imprenditore.
Accogliendo le doglianze di quest’ultimo, gli Ermellini hanno riconosciuto come, nella decisione impugnata, fosse riscontrabile un vizio di motivazione riferito alla prova della responsabilità penale, posto che la Corte d’appello aveva ritenuto inesistente la forza maggiore e la mancanza di dolo dedotte e allegate dall’imputato.
Questo, in un contesto in cui la difesa dell’imprenditore non si era limitata ad asserire l’esistenza di una pregressa crisi d’impresa ma aveva anche allegato elementi che avrebbero dovuto essere valutati per accertare l’entità della crisi, le cause della stessa e l’impossibilità di superarle tramite il ricorso ad idonei strumenti.
Nella loro pronuncia, i giudici di legittimità hanno infatti ricordato come, secondo la giurisprudenza, il dissesto societario possa rilevare come causa di forza maggiore se siano assolti gli oneri di allegazione idonei a dimostrare l’asserita crisi di liquidità e il fatto che detta crisi non sarebbe stata fronteggiabile tramite il ricorso ad apposite procedure da valutarsi in concreto, non ultimo il ricorso al credito bancario.
Spetta all’imprenditore, in queste ipotesi, dimostrare di aver posto in essere, senza successo per causa a lui non imputabile, tutte le misure idonee a reperire la liquidità necessaria per adempiere il proprio debito fiscale.
Nel caso in esame, tuttavia, la Corte territoriale si era limitata ad affermare che l’Iva avrebbe dovuto essere versata, in quanto risultante dalle relative dichiarazioni, nonostante le precarie condizioni economiche aziendali.
Non era stato, ossia, considerato che, nella prospettazione del ricorrente, assumeva rilevanza la testimonianza del consulente fiscale della società - da cui era emerso, peraltro, che vi erano numerosi crediti non incassati - al fine di accertare l’eventuale portata della crisi d’impresa, nonché di chiarire le ragioni della cessazione dell’attività, del ricorso alla procedura di concordato per la ristrutturazione del debito e del successivo fallimento.
Senza contare che i giudici di merito avrebbero dovuto prendere in esame – quanto meno allo scopo di valutare la sussistenza di una reale impossibilità di superare la crisi, non imputabile all’imputato - anche il tentativo che il ricorrente aveva affermato di aver effettuato con le banche al fine di giungere ad un accordo transattivo, attraverso la prestazione di garanzie personali.
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