Le presunzioni tributarie in base ai dati emersi da indagini bancarie, pur avendo valore indiziario, non sono di per sé sufficienti a condannare l’imputato accusato di omessa dichiarazione ed evasione fiscale, né utilizzabili ai fini della quantificazione dell’imposta evasa penalmente rilevante. Né il silenzio serbato dal contribuente sia in sede di contraddittorio con l’Amministrazione finanziaria, che, successivamente, in sede penale, assume a tal fine rilevanza.
Lo ha affermato la Corte di Cassazione, terza sezione penale, accogliendo il ricorso di un imprenditore avverso la propria condanna per i reati di omessa dichiarazione.
In particolare, ha rilevato la Corte come ne caso de quo difettasse l’esistenza di univoci elementi probatori di accusa, non potendo le risultanze derivanti da indagini bancarie – proprio in relazione alla inutilizzabilità delle presunzioni di cui all'art. 32 D.p.r. 600/1973 – rappresentare ex se idoneo elemento di prova a sorreggere la tesi dell’accusa.
Inidoneità – chiariscono gli ermellini - non solo probatoria ma anche indiziaria, posto che nel reato di omessa dichiarazione è rimesso al giudice penale il compito di accertare l’ammontare dell’imposta evasa, da determinarsi sulla base della contrapposizione tra ricavi e costi di esercizio detraibili, mediante una verifica che, previlegiando il dato fattuale reale rispetto ai criteri di natura meramente formale che caratterizzano l’ordinamento fiscale, può sovrapporsi ed anche entrare in contraddizione con quella eventualmente effettuata dinanzi al giudice tributario.
Quanto invece al silenzio serbato dal contribuente, è principio consolidato nella giurisprudenza quello secondo cui non è consentito al giudice desumere, dalla rinuncia dell’imputato a rendere l’interrogatorio, elementi o indizi di prova a suo carico, atteso che allo stesso è riconosciuto il diritto al silenzio e che l’onere della prova grava sull’accusa. Non deve infatti dimenticarsi che la negazione o il mancato chiarimento, da parte dell’imputato, di circostanze valutabili a suo carico, nonché la menzogna o il semplice silenzio su queste ultime, possono fornire al giudice argomenti di prova solo con carattere residuale o complementare ed in presenza di univoci elementi probatori di accusa, non potendo determinare alcun sovvertimento dell’onere probatorio.
Nella specie dunque – ha concluso la Corte con sentenza n. 15899 del 18 aprile 2016 – l’assoluta mancanza di un’autonoma valutazione delle risultanze derivanti dalle indagini bancarie, associata ad una erronea applicazione della regola di giudizio che ha visto attribuire valenza di adeguato riscontro al silenzio dell’imputato nel contraddittorio con l’Amministrazione ed in sede penale, non può che far ritenere fondate le doglianze sollevate dal contribuente.
Ai sensi dell'individuazione delle modalità semplificate per l'informativa e l'acquisizione del consenso per l'uso dei dati personali - Regolamento (UE) n.2016/679 (GDPR)
Questo sito non utilizza alcun cookie di profilazione. Sono invece utilizzati cookie di terze parti legati alla presenza dei "social plugin".